Cronaca nera a Ravenna: la comunità tunisina

 

Un fatto grave ha colpito la mia città. Un automobile con a bordo giovani di origine tunisina non si è fermata ad un posto di blocco. E’ fuggita con manovre pericolose per le vie del mare e del centro, poi è stata fermata, ma gli occupanti (tutti ubriachi ed in possesso di armi, poi rivelatesi giocattolo) sono fuggiti nuovamente. Nell’inseguimento un agente ha fatto fuoco, uccidendo uno degli occupanti, identificato come un pregiudicato con alcuni precedenti.

La comunità tunisina ha manifestato due volte per le strade del centro, con cortei non autorizzati, esibendo le immagini del ragazzo deceduto e contestando le forze dell’ordine, le quali hanno sorvegliato gli eventi senza intervenire.

Una contromanifestazione pacifica di cittadini a sostegno dell’operato delle forze dell’ordine, promossa dal commerciante Filippo Donati, è stata viceversa “invitata” a sciogliersi, dagli stessi agenti.

Ulteriori agitazioni sono state minacciate dalla comunità tunisina nei giorni a venire.

Esprimo alcune valutazioni in merito.

  1. Solidarietà per la perdita di una giovane vita umana, sempre e comunque. Una morte può essere “necessaria” ma non può essere un evento da festeggiare, come qualcuno ha fatto.
  2. Solidarietà agli agenti che hanno svolto – secondo la ricostruzione degli organi di informazione – in modo ineccepibile il loro lavoro. Nel mio mondo ideale l’agente che ha sparato sarebbe già medagliato e promosso. Solidarietà alle forze dell’ordine anche a prescindere dai fatti in questione. Pattugliare giorno e (soprattutto) notte una città – anche una città tranquilla come Ravenna – è impresa da quotidiani eroi anonimi.
  3. Mio padre (pur impegnato più volte in manifestazioni di protesta politica e sindacale) mi ha insegnato che non si sfidano le forze dell’ordine, ma anzi si rispetta e si apprezza il loro lavoro anche a tutela del diritto di dimostrare. Tale sfida può portare conseguenze gravi. Il giovane tunisino ha pagato al prezzo più alto un comportamento pericoloso, che implica il rischio della morte. E’ sempre stato così e ritengo giusto che lo rimanga.
  4. La solidarietà alle forze dell’ordine si estende anche alle situazioni che le vedono attaccate in tutti gli stadi d’Italia. Tale atteggiamento sistematico (due ore di insulti, a prescindere dall’andamento della partita e dal comportamento degli agenti) è quasi sempre tollerato, quasi fosse una manifestazione di consolidato folklore.
  5. La solidarietà alle forze dell’ordine si estende, ad esempio, al carabiniere Rocco Placanica, protagonista nel 2001, a Genova, dell’uccisione del manifestante Carlo Giuliani. L’inopportunità (unanimemente condivisa) dei tunisini di presentare il caduto come un eroe è la stessa praticata (senza ostilità di alcuno) dai tifosi della Lazio che esibiscono gigantografie del loro tifoso Sandri, morto per la follia di un agente, ma non esente da un approccio con il calcio non proprio pacifico.
  6. Mi auguro quindi, per amore di coerenza, che fra coloro che oggi solidarizzano con le forze dell’ordine e si oppongono alle manifestazioni dei tunisini, non vi siano contestatori da stadio o anime belle solidali con Giuliani (aldilà dell’ovvia pena per la perdita delle giovani vite)

 

Due parole ora sulla comunità tunisina.

Non frequento molto la vita sociale cittadina, o perlomeno non lo faccio in modo completo.

Direi, però, che per la prima volta la comunità tunisina si manifesta in modo evidente e riconoscibile. Cominciamo, quindi, malissimo, vista la mediocrità del pretesto.

Altre domande sulla comunità tunisina.

Dov’è la comunità tunisina quando si parla di iniziative benefiche, di natura e ambiente, di sport, di iniziative a favore dei bambini, di manifestazioni di musica, di teatro, di feste e sagre popolari, di solidarietà internazionale, di politica, di arte, di scienze??? Al limite dov’è quando si parla di sicurezza cittadina e quando si esaminano – e capita spesso – le malefatte dei propri componenti?

Non gliene frega proprio niente di niente? Temo di no.

La comunità tunisina si caratterizza soprattutto per una mediocre propensione all’integrazione con il popolo che (non richiesti) li ha ospitati, e con le altre comunità straniere cittadine.

I tunisini conservano la loro fede musulmana, ma flirtano con illegalità incompatibili con essa (la droga e l’alcol) e si riconoscono anche con i più squallidi (per quanto leciti) lustrini della modernità (la musica dozzinale e rumorosa, gli abiti firmati, la tecnologia alla moda).

 

La comunità tunisina e la popolazione di Ravenna (e italiana in generale), rischiano pertanto di arrivare in rotta di conflitto per due motivi. Uno è di ordine pubblico ed è di facile individuabilità (ancorché di difficile soluzione).

L’altro è più delicato e più inestricabile. Le minoranze straniere (non solo quella tunisina), non “piacciono”.

Non sono “simpatiche”.

Il caso genericamente tollerato di straniero è solo quello in cui lo straniero stesso si “integra”: ovvero lavora onestamente, paga le tasse, rispetta le leggi, manda a scuola i figli e compartecipa alla speranza collettiva occidentale di un’equa ambizione ai consumi più alti.

Ogni volta che uno straniero palesa una diversità lascia delusi, anche chi, a tali diversità, si approccia con le migliori intenzioni.

Ci lasciano delusi i rapporti uomo-donna. Spesso (il caso cinese in particolare) quelli genitori-figli.

Sono mediocri il rapporto con il denaro (probabilmente perché è uguale al “nostro” ma viene da noi ritenuto meno legittimo), il rapporto con la natura, con l’igiene personale e pubblica; persino con l’alimentazione (si escluda l’apprezzato caso cinese e pochi altri), con la musica (chi escludiamo? I brasiliani senz’altro; i giamaicani, se ce ne fossero; non mi vengono altri esempi di sonorità etniche genericamente apprezzate dalle masse). Va poco meglio con lo sport, dove ci sono molti praticanti (es. nordafricani che eccellono soprattutto nel podismo, e soggetti dell’Africa Nera che si impongono in varie discipline).

 

Questa “antipatia” è un grosso guaio.

Non è razzismo. La Romagna (e l’Italia in generale) non sono abitate da razzisti. Quasi nessuno si sogna di penalizzare un soggetto per il colore della pelle. Si veda l’esempio degli anni Sessanta, dove popoli del Nord Europa (pertanto diversi da noi) vennero accolti con ogni onore turistico e in nessun caso discriminati (e non solo perché “pagavano”).

Ci si aspettava qualcosa di più.

Si sperava che ci fosse uno scambio più equo.

L’Occidente forniva posti di lavoro, stipendi, sicurezza (molti vengono da Paesi in guerra), futuro per i figli, case, istruzione, eccetera.

I popoli migranti hanno fornito le braccia necessarie per spingere la produzione, il pil, lo spread: per accudire vecchi a cui l’indiavolata vita moderna non ci lascia più tempo di pensare, a pulire la parte nera dei nostri consumi, eccetera.

Io però speravo in qualcosa di più. Speravo che popoli nuovi mi insegnassero cose nuove.

Nella morale sessuale, nell’alimentazione, nel modo di vivere la famiglia, nei rapporti fra persone di lingue e culture diverse, nell’ecologia…

Nulla di tutto questo. Quasi sempre ho dovuto constatare che il modello occidentale (nonostante alcune derive orrende) mi “piace” di più di quasi tutti quelli che vengono da quei popoli.

E non solo (anzi, affatto) perché garantisce una ricchezza monetaria maggiore.

Perché esso, forse, MI garantisce una ricchezza maggiore, ma lo fa a spese di altri popoli e dell’ecosistema.

Gli stranieri consumano meno perché sono più poveri. Ma ogni volta che vengono messi in condizione di consumare di più lo fanno. E lo fanno con meno scrupoli di “noi”.

 

Dicevo che questo è un guaio. E’ la fine di grandi speranze.

Di speranze marxiste, ad esempio. Gli anni Sessanta e Settanta si sono nutriti di euforiche speranze in popoli di cui si sapeva poco o nulla e che dovevano far maturare una Nuova Umanità: l’Unione Sovietica e i Paesi del suo blocco, il Vietnam, la Cina, l’Algeria, Cuba, persino l’Iran, persino l’Albania… Compagni, è andata maluccio, direi.

 

E non dimentichiamo le speranze cristiane. Si basavano su un Uomo senza nazionalità, fratello fra fratelli, in ogni parte del mondo. Pochi sono i cristiani italiani che hanno avuto questa convinzione fortificata dai confronti recenti con le ondate migratorie.

 

Le migrazioni hanno invece rinforzato le ideologie liberiste e capitaliste, confermando l’ambizione dell’Uomo ad essere sempre più un produttore ed un consumatore e a battersi unicamente per la propria scalata sociale (e spesso non importa se spregiudicata e deregolata) unicamente in chiave di reddito e di patrimonio personale

M.O. (aprile 2012)

 

 

 

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