Vent’anni fa… la fine della naja

 

Vent’anni fa.

Ventisei ottobre del 1988.

Ultimo giorno del servizio militare.

Mi trovo a Verona, in una caserma della Nato, dove ho trascorso gli ultimi 8 mesi. Mesi noiosi, grigi, senza ricordi. Giorni che si succedevano uguali, nell’attesa di un ritorno e di un inizio. Il ritorno a casa. L’inizio della mia vita di lavoratore. L’inizio della mia vita di “adulto”.

Negli ultimi tempi ero “anziano” di caserma. Mi venivano assegnati pochi servizi. Passavo ore a dormire o a guardare in TV le Olimpiadi di Seul.

Dell’ultimo giorno ho un solo ricordo: il permesso di uscire per l’ultima volta dal cancello della caserma “Li Gobbi” alle ore 12.

Non so chi mi informa che proprio per le ore 12 è convocata una gigantesca adunata sulla piazza d’armi per il saluto ai congedanti da parte degli altri militari.

Non ho voglia di celebrazioni. Non ho niente da celebrare se non un anno vuoto e noioso. Ho già salutato tutti la sera prima, durante la festa di congedo. Era stato già quello un addio, definitivo ed emozionante.

Qualche attimo prima delle 12 mi affaccio dalla finestra di un bagno della caserma al secondo piano e dall’alto vedo la piazza d’armi formicolante di militari che si abbracciano e si baciano festosi. Saranno cento, forse duecento.

E io dovrei baciare duecento uomini??? Sarò snob, sarò omofobo, sarò asociale, sarò senza cuore, ma non ne ho voglia. Devo studiare un piano alternativo.

C’è l’uscita del magazzino della mensa che taglia fuori la piazza d’armi e mi consente di arrivare al portone d’uscita senza passare dalla “festa”. Se mi vedono sono fregato, dovrò dare spiegazioni, dovrò beccarmi la “cazziata” degli altri congedanti…

Duecento uomini da baciare… non posso rischiare. Ci devo provare.

Scivolo via veloce. Sento in lontananza cori e boati. Manca l’ultimo tratto che percorro quasi di corsa con il borsone in spalla. Ma c’è appena stato il cambio della guardia e lo “smontante” è il fante Laganà, un siciliano che conosco poco. So però che ci teneva moltissimo a non mancare alla “festa” (i militari meridionali erano un po’ più legati a queste cose) per cui si affretta nella direzione opposta alla mia.

Lo incrocio. Lui ha un’aria molto perplessa. Sappiamo entrambi che è l’ultima volta nella nostra vita che ci vedremo. Non capisce come mai io mi trovi lì. “Ortolani!!!” mi urla apprestandosi ad un saluto affettuosissimo come da sua abitudine.

Faccio un rapido calcolo. Non posso soffermarmi qui, potrebbero accorgersi di me…

Devo baciare in fretta Laganà e piantarlo lì.

Affretto il passo verso di lui.

“Laganà!!!! Ti devo salutare in fretta, se no perdo il treno!”

“Il treno… ma come…?”

Avrebbe voluto dirmi che gli altri congedanti emiliano-romagnoli hanno il treno alle 13.30 e chiedermi come mai non mi sono trattenuto alla festa…

“Ciao Laganà. Gli altri li ho già salutati. Mi raccomando: massicci!”

“Massiccio” era l’aggettivo più usato all’interno della caserma. Qualsiasi cosa positiva era “massiccia”. Il nostro scaglione era il più “massiccio”.

Lascio sul posto l’esterefatto Laganà e sono a soli 20 metri dal cancello. Mi sento braccato. Tra poco Laganà parlerà e potrei averli alle calcagna con delle fette di torta in mano e l’obbligo di ripetere ancora quelle formule cementate dall’alienazione del servizio militare che invece vorrei dimenticare subito e per sempre.

La porta carraia. C’è sempre un militare di guardia. Chi hanno messo oggi???

Respiro. C’è un lombardo di cui ricordo vagamente la faccia e affatto il nome. E’ freddo come le valli di lassù. Mi fa passare dicendo solo “Ciao Ortolani”.

E sono libero.

Giro per il centro di Verona aspettando l’ora per il treno. Del viaggio non ricordo nulla.

Arrivo a casa a metà pomeriggio.

Durante la leva avevo ottenuto un permesso per partecipare ad un concorso pubblico per un posto all’Inps. Un concorso nazionale, con oltre 100mila partecipanti per circa 1500 posti in tutta Italia. La prova era una serie di giochi logico-enigmistici su cui ancora adesso sono abbastanza forte, ma dove allora, fresco di studi, ero imbattibile.

Poco prima del congedo avevo ricevuto la lettera di assunzione e l’assegnazione alla sede di Ravenna.

Mi risultava, per legge, di avere diritto a qualche giorno di “riposo” prima di prendere servizio.

Mentre disfo la valigia aiutato dai miei genitori mi riprometto di recarmi l’indomani in Sede per prendere ordini… ops… per avere notizie.

Ma suona il campanello. E’ il ragioniere Luigi Santandrea, reggente dell’Ufficio Contributi della Sede Inps di Ravenna (non lo sapevo), nonché padre (questo lo sapevo bene) del fraterno amico Stefano, compagno della maggior parte delle avventure di quell’epoca giovanile.

Santandrea mi spiega qualcosa. Dice che devo presentarmi l’indomani per prendere servizio; solo così potrò essere assegnato al “Progetto Arpa” (sigla che non mi dice alcunché) di cui lui è uno dei responsabili.

“Questo progetto Arpa deve essere una cosa seria – penso – se il ragionier Santandrea si prende la briga di disturbarsi (e di disturbarmi) a pochi minuti dalla sospirata fine della mio servizio militare”.

Accetto senza se e senza ma, anche per un retaggio di obbedienza all’autorità e all’anzianità che mi si era affinato durante la leva.

Alle 7 e 40 minuti del giorno successivo, il 27 ottobre, (peraltro benaugurale giorno di paga) mi reco in ufficio in bicicletta e varco il portone della Sede Inps di Via Romolo Gessi.

Mi fanno le visite mediche e mi spiegano che “ARPA” significa Archivio Regionale Posizioni Assicurative.

Dovremo prendere tutte le “tessere con le marchette” – che fino al 1974 si sono usate per versare i contributi dei lavoratori – e trasferirle con il computer (al “terminale” si diceva allora) su un archivio meccanizzato regionale.

Dal giorno successivo (e per un mese) mi recherò a Ferrara per farmi spiegare tutto dai docenti Inps.

Sono un parastatale.

E’ l’ottobre del 1988 e il tempo vola via.

 

Marco Ortolani – ottobre 2008

 

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