Volevo giocare ancora…

 

“Voi andate via, non siete bravi, non giocate più!”  

Al netto dei miliardi, della TV, della politica, del doping, degli arbitri, il “sugo” del calcio è nelle stesse frasi che dicevamo da bambini: “fammi giocare”, “voglio vincere”, “dài che ce la facciamo!” “è un’ingiustizia”, “diamo il massimo”, “voi rubate”, …  

Questo tanto per rispondere a coloro che ancora si chiedono stupefatti come mai il calcio abbia questo risalto e questa capacità di entrarci nel sangue e nella mente.

Lo diceva Boniperti: “Date un cesto pieno di giochi a un bambino di pochi anni e fate in modo che fra questi ci sia un pallone: lui quasi sicuramente prenderà per primo il pallone. E gli darà un calcio”.  

C’è anche un verso della celebre “Notti Magiche” di Nannini-Bennato: “Non è una favola / e dagli spogliatoi / escono i ragazzi… e siamo noi”.  

Siamo noi, i ragazzi. Siamo noi che affidiamo ricchezze enormi (che sfamerebbero uomini, rilancerebbero l’economia, garantirebbero servizi, ecc) a un gioco, dove se fa molto caldo potrebbero vincere gli “altri”, dove c’è un arbitro che non vede, dove c’è il capriccio di un pallone che può entrare o uscire per questioni di millimetri.

Paghiamo profumatamente il calcio, perché senza il calcio non saremmo noi. E, se non fossimo noi, non avrebbe nemmeno più senso aver eventualmente sfamato, rilanciato, garantito, ecc.

Paghiamo il calcio perché ci sono molte cose che ci rendono uomini, ma pochissime che ci conservano bambini.

I mondiali sono il gioco più bello, quello dove una consolidata tradizione garantisce una patente di bambino a tutti, anche a chi di solito non se ne interessa. I mondiali sdoganano la lacrima, l’urlo, la rabbia, la retorica, la poesia, il canto, l’abbraccio inaspettato, senza che si debba giustificare niente, senza che qualcuno ti guardi con incredulità, senza che tu debba spiegare perché in quel momento stai facendo quel qualcosa che di solito non fai e stai portando fuori qualcosa di te che, di solito, non esce mai.

Perché se la commessa del supermercato, che non hai mai visto in vita tua, ti dice “Forza per stasera!” tu capisci. Non avremo mai più il coraggio o la personalità di scambiarci altre parole, che non siano “pin per favore” o “due borse grandi, grazie”. 

Perché la nipotina mi chiede dov’è il Costarica. Ed è come se in quel momento, per magia, tutte le nipotine lo stessero chiedendo a tutti gli zii del mondo.

O perché una rinfrescatina all’inno e alla bandiera consentono di ricordarci (capita di rado) chi siamo, come ci chiamiamo, quanta e quale strada abbiamo fatto per arrivare qui.

Del calcio può non piacere il gioco. Può inorridire il giro di denaro. Può scandalizzare il fenomeno del doping. Può deludere il meccanismo mafioso che lo governa. Può sconcertare il comportamento maleducato e cafone di alcuni protagonisti.

Ma non è possibile rimanere estranei ed esterni a tutto. Non trovo elegante rimarcare ad ogni frase “Ah, a me il calcio fa schifo!”. Tutto? Anche la sfilata del popolo brasiliano in festa (e in passato del Sudafrica e delle altre nazioni ospitanti)? Anche i mille cenni di storia e cultura popolare che abbiamo assimilato sulle nazioni partecipanti? Anche i comici che creano intorno al calcio i loro sketches migliori? Anche gli intellettuali che affollano di parole intelligenti i programmi tv sul tema? Anche la ricerca scientifica su tessuti, cure mediche, alimentazione, che sul calcio si conduce al massimo livello? Anche il buon italiano dei commentatori sportivi che spesso sono unici maestri di lessico e di sintassi per milioni di connazionali? Anche quando un bambino ti chiede“guardiamo la partita insieme”? Anche quando la partita dei mondiali è occasione di ritrovi e di momenti di socialità fra i migliori che ricorderemo?

No, non si può essere estranei a tutto. Sarebbe come non essere mai stati bambini o rifiutarsi di ridiventarlo almeno per un paio d’ore ogni quattro anni.

Per questo mi dispiace quando la Nazionale gioca male e, ancora di più, quando perde. Per questo che mi fanno arrabbiare i calciatori e le personalità del calcio quando si comportano male e mancano la grossa occasione di dare esempi importanti.

Dopo la sconfitta con l’Uruguay, non ho fatto tragedie: la vita, per fortuna, è fatta d’altro. Ma siamo bambini a cui hanno portato via il gioco. Guarderemo la festa degli altri e non sarà la stessa cosa.

Io volevo giocare ancora.

 

Marco Ortolani – giugno 2014

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