Stazione Termini. E dirle solo qualche scemenza (quando fa così non è arrivabile)

  • Scritto da Marco
  • 27.03.2009  15:31.42

Correvano insieme. Lui verso la città, lei verso un orizzonte di linee elettriche e traversine. Finalmente Andrea raggiunse l’ultimo vagone. Si affacciò. Giulia era lì a pochi passi. Andrea corse verso lo sportello. Provò ad aprirlo. Non ci riuscì. Allora abbassò il finestrino e si sporse il più possibile.

“Vai, Giulia, vaiiii!!”

“Andreaaaa!!…”

Pochi metri: la piattaforma sarebbe finita e il treno sarebbe sparito, inghiottito dai mille tentacoli dei binari. Giulia correva più forte che poteva. Andrea afferrò la maniglia e si lanciò ancora di più fuori. Giulia corse come non aveva mai corso in vita sua. Corse il fiato che non aveva più, corsero le gambe che le tremavano, corse la paura di cadere; corse il desiderio di sfiorarlo, corse la rabbia per non avergli mai detto cosa pensava davvero di lui, corse la follia di salire su quel treno e lasciarsi alle spalle tutto quello che alle sue spalle fosse rimasto; corse la sorpresa del primo incontro, la nuvola col viso di Andrea, l’ironia di Irene, il sarcasmo di sua madre, l’inerzia colpevole di suo padre; corse l’incanto del pomeriggio sotto il cedro, corse la bile della festa a Centocelle, il sublime dell’isola; corse la mareggiata nel capanno a Fiumicino, corse il sogno dell’ultima sera, corse la paura di perderlo; corse la voglia di urlare.

Andrea urlò. Urlò la voglia di scendere e correrle incontro; urlò la rabbia del distacco, urlò la stupidità dell’esame fallito, urlò uno a uno, i capelli che si era dovuto tagliare; urlò la sacca, lo zaino, i libri, i fogli da disegno, le matite e la sciarpa di suo padre; urlò quel pomeriggio al bar, urlò la casa di Prati, urlò l’umiliazione della voce della madre di Giulia al telefono; urlò gli sguardi appuntiti all’uscita di scuola; urlò le verità di Leo, urlò l’ironia di Vince e l’apatia di Secco; urlò lo sguardo impotente di sua madre e il ticchettio ulcerante della macchina da scrivere; urlò la campagna, le colline, l’argine e le stelle che non lo accompagnavano più; urlò il sublime dell’isola; urlò la mareggiata nel capanno di Fiumicino, urlò il sogno dell’ultima sera; urlò la paura di perderla.

Lui allungò il braccio. Lei si lanciò verso di lui. Le mani si sfiorarono appena. I cuori si incepparono, mentre le labbra provavano di nuovo a sillabare un sorriso. Giulia si fermò sul confine dell’ultimo fiato. Oltre non si poteva più andare. Andrea si tolse la sciarpa e gliela lanciò. Il sole di mezzanotte spiegò le sue ali e volò verso una nuvola dalla faccia pulita. L’ultima cosa che vide fu il suo sogno di avvolgersi nella luce dorata dell’estate di Capo Nord. E, mentre il treno scompariva alla vista della città, dall’ultimo vagone osservò tramontare la stazione.

“Ti scrivo” disse Giulia, affidando quel resto di fiato alla fragile intermittenza della piccola stella rossa che segnava il punto nel quale la coda di quella cometa abbandonava il cielo della realtà per tuffarsi nel mare immobile del dolore, là dove tutto fugge.

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