QPGA: e la maglietta fina diventa teatro di gran classe

QPGA: e la maglietta fina diventa teatro di gran classe

  • Scritto da Marco
  • 09.10.2008  19:05.30

Venerdì 28 novembre ho visto a Roma lo spettacolo del nostro eroe e ne sono uscito soddisfatto e divertito, dopo un QPGA che è stato tutto sommato all’altezza delle mie aspettative. Speravo (e in parte – leggendo qua e là – un po’ già sapevo) di trovare idee originali, multimedialità, innovazione, sorprese; tutto avvolto in una confezione che Claudio sapesse rendere generosa e credibile, come quasi sempre gli è riuscito di fare.
Speravo anche che ci fosse quel “qualcosa” che mi aiutasse a superare la mia congenita ostilità per il repertorio dei sentimenti “verdi” – che io chiamo “produzione minore” – e di cui l’album del 1972 era ricchissimo.
Ho trovato tutto questo e quindi sono uscito ancora una volta ringraziando
il maestro dei mille e più incantesimi.
Mi sono piaciute le idee multimediali, il mix di filmati, foto, parole, note
e ricordi. Claudio ormai non rinuncia più a trasformare ogni notte in un
antologia della sua lunga vita artistica e della sua esistenza di uomo. A
volte ci sono derive di vanità, altre volte (le più numerose) ci sono tracce di un cammino che è stato personale, ma è stato quello di una (e forse più) generazioni, che Claudio sente spesso il desiderio e la possibilità di stringere intorno alle sue canzoni.
Ho trovato stupendi i “parlati” che intercalavano le canzoni: la sabbia e il miele della voce di un grande artista che si faceva, alle mie orecchie, racconto di un fratello maggiore, capace di avvolgere, affascinare e infilarsi in ogni anfratto del teatro che ospitava lo spettacolo.

Mi è piaciuto tutto, quindi? No di certo. Dico da tempo che certe canzoni
non sono più proponibili, non sono più credibili. Pensare che Gianolio e C.
abbiano perso mesi per trovare soluzioni orchestrali e di arrangiamento a versi “memorabili” tipo “sei mai stato operato? sì una volta qui” o “stazione termini, parenti e amici, saluti e baci” o “studio francese, cosa c’è da sghignazzare?” mi sembra uno scandaloso spreco di tempo e di talento. Però tutto si è ben inserito (grazie soprattutto ai “parlati”, che mi hanno ricordato la qualità dell’alter ego Cloud del tour blu) in uno schema riconoscibile e snello, con cui Claudio ha saputo colpire l’emotività di tutti, come se ognuno di noi avesse avuto una piazza in cui pensare di poter cambiare il mondo, un Tevere da passeggiare mano nella mano e un androne di scale in cui terminare insieme una notte, col cuore trafitto da mille frecce.
Abbiamo visto anche qualche scena del film. Lo aspetto per febbraio con fiducia; voglio credere, anche dopo aver visto solo poche battute, che si possa parlare di amore giovanile, anche viaggiando tre spanne, tre chilometri, tre dimensioni sopra il cielo della mediocrità e del conformismo commerciale.

Vorrei inoltre sottolineare la sontuosa premessa-dedica iniziale che (ricordo a memoria, sperando di non sbagliare) diceva “I grandi amori non durano tutta la vita, ma te la segnano per sempre”. Non so se ho capito male. Non so se ho voluto capire oltre quello che si era voluto dire. Ma io l’ho trovata una dedica maestosa e raffinata.

Un’ultima parola per lo scandalo delle immagini “rubate”: sembra incredibile
che così tante persone abbiano sfidato ripetute raccomandazioni, controlli,
preghiere suppliche dello stesso Claudio per non usare strumenti di ripresa.
In questa strana società sembra che se qualcosa non finisce su Facebook o su
Youtube non possa dirsi veramente “accaduta”, veramente “vissuta”. Eppure
sul palco c’era qualcuno che invitava a stringere le storie in fondo agli
occhi, laddove nessuno potrà mai “taggarcele”, laddove rimarranno nostre,

laddove ci accompagneranno (parlo almeno per quanto mi riguarda) fino alla
fine, fino a che si potrà.

Un saluto a tutti, con un ringraziamento a Raffaele (e Manlio) per il
bellissimo regalo autografato che proprio adesso filo subito a cominciare di
leggere.

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Questo disco a 33 giri è uno dei più venduti nella storia della musica leggera italiana e il brano che gli dà il titolo è stato giudicato “Canzone del Secolo”. Venne pubblicato nel 1972 da un 21enne cantante romano, quasi esordiente, che viveva in una borgata della Capitale, figlio di un brigadiere dei carabinieri e di una casalinga.

“Questo Piccolo Grande Amore” (“QPGA” per gli introdotti) è un disco dai rivoluzionari contenuti musicali e di arrangiamento che inizialmente non consideravo un granché (era condizionante la sostanziale banalità del “plot” di collegamento e di alcuni testi), ma che, negli anni, ho imparato ad apprezzare, grazie anche agli ascolti “guidati” che ho potuto fare con dotti e preparatissimi musicisti-tifosi di Claudio.

Le canzoni di QPGA si susseguono secondo un filo logico quasi cinematografico (e infatti nel febbraio 2009 uscirà un film ad esso ispirato), di cui sono protagonisti il giovane Claudio e la bionda raffigurata con lui in copertina, che partecipa come voce secondaria ad alcuni brani e che non è difficile identificare nella bellissima Paola Massari, che diventerà poco dopo sua moglie.

QPGA è stata la fortuna economica e mediatica di Claudio, nonché la sua prigione dorata, quella che lo ha chiuso per molto (decisamente troppo) tempo nella gabbia di autore disimpegnato, giovanilista, sentimentalista.

Il mio “incontro” con Claudio risale ad un quindicennio dopo, quando dischi di immenso valore come “Strada Facendo” e “La Vita è Adesso” avevano affiancato – alle sue già note ed impareggiabili doti di musicista e interprete – toni, linguaggi, parole e anche comportamenti personali che ne definivano la ben diversa e superiore statura.

Credo (e spero) che Claudio sia arrivato a detestare l’identificazione quasi totalizzante della sua personalità artistica con i fortunati brani della sua produzione più zuccherosamente sentimentale (io la chiamo “la produzione minore”).

A suo tempo si fece mettere in un angolo dai colleghi che ostentavano l'”impegno” dei loro testi e delle loro posizoni politiche. Nel 1988 venne fischiato a Torino dal pubblico delle stelle anglosassoni del rock (con cui condivideva il palco di un concerto per i diritti umani), che gli contestavano bufalescamente la presunta mancanza di elementi rivoluzionari nella sua musica.

Ha saputo aspettare e negli ultimi tempi è passato alla cassa a riscuotere, con i capelli grigi, quel consenso “bulgaro” che oggi sa estendersi dai salotti intellettuali ai cuoricini impazziti delle quindicenni che – vero miracolo – non cessano di battere forte, a 36 anni da quell’amore immenso nato “nel rosso di un tramonto” e finito “addormentato sulle scale, la mano nella mano”.

Oggi Claudio è Vate della nostra canzone. Più Carducci che D’Annunzio. Si è esibito alle feste dei partiti di opposizione e davanti al papa; nelle convention per ricconi annoiati e nelle parrocchie delle periferie degradate; fra gli stucchi dei teatri di tradizione e sulle spiagge della disperazione a Lampedusa. Ha cantato la famiglia, la solitudine i figli, i genitori, il lavoro, gli amici, la morte, le donne, le armi, l’amore, la vita, il riso, il pianto, lo ieri, l’oggi, il domani e il mai.

Con lo spettacolo che mi accingo ad andare a vedere a Roma il prossimo 28 novembre, intitolato proprio “QPGA”, Claudio “chiude il cerchio” e si riconcilia definitivamente con quella condanna dorata, che tanti anni fa, seppe rinchiuderlo in una maglietta fina, davvero troppo stretta.

Buona fortuna, maestro e fratello Claudio. Non smettere di trasmettere.

 

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