La battaglia di Fantozzi

I 10 minuti di “Il Secondo Tragico Fantozzi” (sceneggiatura di Luciano Salce e Paolo Villaggio – che su youtube ho trovato solo con buffi sottotitoli in croato dove manca anche il “dibattito” finale) valgono come un manuale del costume e della società italiana.

Villaggio-Fantozzi è il tipico lavoratore degli anni sessanta. Guadagna uno stipendiuccio che gli consente di girare con un’utilitaria, mantenere in qualche modo la famiglia e pochissimo altro. E’ vessato da sistemi “verticali” di potere. Innanzitutto sul lavoro, dove subisce prepotenze e angherie spesso gratuite. Ma non solo: anche il tempo libero è comunque impostato su regole molto rigide, come usava allora. Non era semplice essere buoni cattolici (infiniti limiti soprattutto nella sfera sessuale) o buoni comunisti (disciplina ferrea su etica e lavoro) o buoni dirigenti pubblici. In generale le appartenenze erano vincolanti, piene di regole, di gerarchie, di timori.

Fantozzi, si rifugia quindi nella privacy domestica, solitamente mortificante (moglie e figlia sono per questo motivo interpretati da attori molto brutti), che, per una volta, gli può dare un diversivo stimolante: la partita di calcio fra Italia e Inghilterra. L’occasione eccita gli istinti della “scimmia nuda”; che può orgogliosamente rivendicare di fare le cose di cui dovrebbe, in condizioni normali, vergognarsi: vestirsi come gli pare (“calze di lana”), mangiare e bere sregolato (“frittatona con le cipolle e magnum di Peroni gelata”), essere politicamente uncorrect (“la perfida Albione”), e soprattutto partecipare intensamente (“tifo indiavolato”) ad uno stimolo sportivo che un tempo (e sembrano passati secoli) era proprio solo dei popolani meno raffinati, ed escludeva intellettuali, politici e uomini di prestigio e responsabilità (si noti come tutti i dirigenti di Fantozzi siano ostili alla partita) e tutti coloro che volessero darsi un “tono sociale”.

Fantozzi, nel film, viene crudelmente sottratto alla sua micro-felicità, richiamato agli obblighi di emancipazione e crescita tipici dell’Italia del Dopoguerra, che da provincia contadina voleva diventare potenza mondiale, cosa che richiedeva uno sviluppo etico e personale di tutta la classe lavoratrice (oltreché di quella politica e imprenditoriale). Un cambio di comportamenti, di educazione, di linguaggi.

Ma succede qualcosa. La misura è piena. Il lavoratore italiano si scontra con il suo limite. Non può snaturarsi oltre. Non può continuare a fingere di essere ciò che non è. Non può ambire a diventare ciò che non è in grado di diventare. Ha raggiunto una sicurezza ed un benessere personale e familiare sicuramente impensabile per la generazione precedente. Ha accumulato con fatica un patrimonio di piccole felicità che tutto sommato lo soddisfano (l’automobile, la televisione, gli elettrodomestici, qualche vacanza, qualche gratificazione per i figli) e non lo stimolano a cercare oltre.

Fantozzi è combattuto, ma ancora per questa volta – che sarà sicuramente l’ultima – si piega al vecchio modo di fare. Esegue. Obbedisce. Come tutti gli altri. Si sorbisce “La Corazzata Potemkin” – caposaldo della storia del cinema, ma fuori dalla sua portata culturale – oppresso dallo struggente rammarico per le emozioni della partita (“girava notizia che aveva segnato anche Zoff con un colpo di testa”).

Alla fine raccoglie tutto il suo orgoglio per insultare, insieme al film, tutto quel percorso di crescita che, ne è certo, non fa più per lui, non lo interessa, non lo stimola. E’ “una cagata pazzesca”. Il turpiloquio si sdogana completamente e quella frase – all’epoca traumatica e fragorosa – oggi è acqua fresca, immersa in un’impensabile giungla di parolacce divenute familiari e quotidiane a tutti, anche alle donne, anche agli anziani. Nella triste evoluzione di questo fenomeno – visibile sui social network – diventa normale che una persona qualsiasi, ignorante e culturalmente modesta, sia villana, greve e saccente anche in discussioni serie con persone preparate . Sono 92 minuti di applausi che seppelliscono il grande sviluppo etico-sociale italiano del Dopoguerra, ricollocando il lavoratore in una posizione più chiusa, individualista, egoista, orientata ai consumi personali e al benessere materiale.

Sicuramente la lezione di Fantozzi servirà. Non ci saranno più cineforum nei giorni delle partite. Qualsiasi attività “seria” imparerà a rapportarsi con il calcio, che nel frattempo uscirà completamente dalla sua nicchia popolare e maschile, per diventare intoccabile e sacrale fenomeno globale, destinato anche alle donne (che nel film sono totalmente estranee alla partita), agli intellettuali, ai politici, agli artisti, agli imprenditori, ai dirigenti, agli showmen televisivi, alle persone “importanti”.

Fantozzi vincerà il primo tempo della sua battaglia. Il suo tenore di vita crescerà ulteriormente e progressivamente, arricchendosi di nuovi benefici che lo renderanno più grande e libero, ma anche più solo in mezzo al mondo. Cederà l’appartenenza ad una “classe” (quella lavoratrice), che, disgregata e cellularizzata, perderà la sua forza di mostrarsi unita di fronte alle sfide della modernità. E sarà inutile dare ad “altri” una colpa che è di tutti noi. Di noi Fantozzi.

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