Elezioni 2018 – Il voto al supermarket

L’esito delle elezioni politiche è un evento che incide in modo molto trascurabile sulle nostre vite.

Anche laddove qualcosa di nostro sembri legato ad un decreto del governo o una legge del parlamento, non ci sono mai sufficienti elementi di certezza per dirsi convinti che un altro ministro o un’altra maggioranza  avrebbe preso lo stesso provvedimento o uno diverso, o migliore o peggiore.

La conoscenza dell’attività politica nazionale è materia complicatissima, tant’è vero che la possibilità di partecipare liberamente alla vita politica del Paese (incontri pubblici, attività di partito, ecc) è ampiamente trascurata dal “popolo”, che preferisce definire la propria “posizione” con due click su internet, i titoli dei giornali scroccati sul frigo dei gelati al bar, una selvaggia raffica di barzellettine e vignettine girate su internet (raccoglierei le firme per proporre almeno un anno di “cessate il fuoco”), un po’ di TV alla moda e la partecipazione a social-dibattiti sul cui livello stendiamo un velo pietoso (basterebbe registrare la percentuale di turpiloquio), preferendo destinare il proprio tempo libero alla famiglia, alla Champions League, ai propri hobby, al cane, ecc.

Le elezioni politiche svolgono un gigantesco compito di “ammortizzatore sociale”. Un sacco di gente parla del “dopo 4 marzo” come di una barriera oltre la quale c’è la felicità o la risoluzione dei problemi: “li manderemo a casa!” “si toglieranno finalmente dai c…!”, “aria nuova!”. In realtà dopo il 4 marzo ci sarà solo il 5 marzo e la speranza che qualcun “altro” (la politica) vada a risolvere i problemi che i popoli creano con i propri limiti (slealtà, scorrettezza, trascuratezza, prepotenza, viltà, stupidità, ecc) sarà per l’ennesima volta mal riposta, perché chiunque vinca sarà nato in Italia, non a Betlemme (peraltro anche quello nato a Betlemme perse nettamente un comodo turno di ballottaggio contro un candidato outsider come Barabba), ed è da illusi pensare che un Paese si cambi a colpi di decreto senza che nessuno faccia niente di personale per migliorare se stesso e l’ambiente in cui si muove.

Votare alle elezioni politiche, quindi, è molto meno importante di quanto si pensi. Molto meno importante delle elezioni che ci toccano più da vicino, come la scelta dei rappresentanti alla scuola dei figli, del presidente di una società sportiva, dell’amministratore di condominio, del rappresentante sindacale, del sindaco di un piccolo comune, di tutte quelle situazioni in cui vediamo e tocchiamo con mano il valore delle persone da scegliere. E’ in situazioni come quelle che prende forma la classe dirigente del Paese. E’ lì che il popolo dimostra il valore che ha e la capacità di scegliere i migliori a livello basso (quando si arriva a livello alto le scelte sono ormai definite e compiute).

Io voterò per il PD, apprestandomi a tornare minoranza, come è giusto che sia (l’anomalia, per me, è “vincere”, far parte di una maggioranza). Voterò per il partito fondato da un intellettuale nobile come Walter Veltroni; per il partito che eredita la tradizione del Novecento che consentì per la prima volta nella storia dell’Umanità ad operai e contadini di partecipare alla vita politica del Paese; per i ritratti che sono appesi nelle sue sezioni; per il radicamento popolare della propria struttura (le sedi, le sezioni, i circoli, i gruppi giovanili… tutta roba in regressione perché la politica la chiacchierano tutti, ma ormai la fanno attivamente in pochissimi); per il generoso tentativo di rinunciare alla cifra ideologica di partenza (marxista o cattolica) per creare una vocazione maggioritaria che facesse da argine ai populismi dilaganti in Europa; per la qualità media dei propri amministratori locali (che furono nei decenni scorsi assoluto modello di progresso e sono tuttora mediamente da preferirsi); per l’appartenenza al gruppo socialdemocratico europeo, che ha garantito oltre 70 anni di pace ad un continente che, di fila, non li aveva mai vissuti; ad un equilibrio fra concetti di sicurezza e accoglienza; ai percorsi politici e personali dei propri leader principali.

So che avrò milioni di occasioni per lamentarmi dei “miei”, ma non trovo motivi per modificare una mia appartenenza che ha radici lontane. Non partecipo alla “divertentissima” gara dei vaffanculi con la quale si saltella da uno schieramento all’altro, come fra gli scaffali di un supermarket, con il certificato elettorale in mano e un voto in dote, pronto ad essere svenduto a seconda dell’ultima vignetta vista o dell’ultimo titolone o della decisione del momento, “tanto che cazzo te ne frega?” (che sembra la cifra di base della maggioranza dei “ragionamenti”), chiedendo però “coerenza” (coerenza? Voi chiedete coerenza?) ai vari leader.

Non partecipo alla grande e gratificante caccia ad un nuovo leader a cui dare tutte le colpe, visto che contro i precedenti ormai si è scaricato il pallottoliere del rancore e del malanimo.

Sono già pronte nuove barzellette e nuove vignette. Dal 5 marzo sarà tutta “colpa” di qualcun altro, che sarà “come tutti gli altri”, che sarà “una delusione”, che “da quando c’è lui… di male in peggio”.

Che sollievo. E’ già tutto pronto. E’ già tutto divertentissimo.

 

 

 

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