Italia che vai dialetto che trovi

Avete mai provato ad imitare un accento dialettale di una zona d’Italia diversa dalla vostra? Magari per prendere in giro un parente o per raccontare una barzelletta?

Bene, se ci fate caso noterete che, oltre a dover cambiare le parole e le pronunce, molto probabilmente avrete completamente cambiato l’atteggiamento, la postura, la gestualità, lo sguardo…

E’ come se ogni accento italiano avesse una connotazione anche caratteriale della popolazione che lo parla. E, spesso, artisti, attori, comici, cantanti hanno messo in scena in questo modo la loro specificità d’origine.

Io sono romagnolo.

Se chiediamo a un non-romagnolo di imitare la nostra parlata dicendo una frase a caso è estremamente probabile che questa persona dica cose legate al godimento della vita, al cibo, al sesso, al ballo e comunque si imposti in un modo festoso ed esuberante (il discorso vale anche per gli emiliani, anche perché pochissimi italiani, anche se di cultura, sanno distinguere i confini dei due territori, che in effetti hanno parecchie somiglianze). Parlano in questo modo i comici come Giacobazzi o Cangini, la cantante Pausini e anche un regista come Fellini (che però ha quasi sempre vissuto a Roma) e persino un politico sobrio come Prodi.

La famiglia di mia madre è veneta. Sembra incredibile, ma quasi tutti quelli che cercano di scimmiottare la parlata veneta assumeranno un atteggiamento servile. La stessa parola “ciao”, ormai internazionalmente conosciuta, deriva dal veneto “s-ciao” che significa “schiavo” e che è (era) il normale modo di porgersi davanti all’interlocutore: “s-ciao suo!” (“sono il suo schiavo”).

Personaggi della commedia dell’arte come Arlecchino (non a caso “servitore” di due padroni) e Colombina (una servetta) hanno alimentato questo cliché che fornisce questa sensazione ascoltando anche due veneti che pure parlino da posizione di potere o di prestigio.

Passiamo alla mia famiglia paterna, che è della provincia di Ancona. I marchigiani (insieme agli umbri, che ne condividono intonazione e diverse parole) si caratterizzano per una parlata che dà la sensazione di persone umili, semplici, pratiche e laboriose. Un bravissimo comico (Massimo Barbato) ha scritto un testo intitolato “Gente de Fuligno” che evidenzia questo concetto. Nel brano si dice “semo gente de Fuligno, semo fatti cuscì, non avemo mai fatto mai male a nisciuno…”. Ho notato, però, che nella fascia costiera (Fano, Pesaro, Ancona, Senigallia) l’accento è molto meno marcato. Forse il meno marcato di tutta Italia, forse il luogo dove mediamente si parla l’italiano più “puro”.

In passato ho avuto una fidanzata friulana di Udine. I friulani sono il popolo probabilmente più sconosciuto agli altri italiani. Gente silenziosa, di montagna, di lavoro. Parlano una vera “lingua” (il friulano). E quando parlano in italiano la loro pronuncia sembra quasi metallica, controllata, essenziale, a volte quasi spaventata (spesso parlano in un sospiro). Non so come dire. Sono difficili da imitare, anche perché la loro cultura popolare non è mai stata esportata. Non conoscerete, probabilmente, attori o artisti friulani. Fa forse eccezione la cantante Elisa che, per… sicurezza, canta in inglese. In qualche intervista, però, si notano le caratteristiche di cui vi dicevo. Friulani anche diversi calciatori che hanno alimentato questa percezione (Zoff, Del Neri, Capello).

Anche qui un’avvertenza: i triestini non sono friulani! (sono giuliani). I pordenonesi sono friulani, ma, come i triestini, sembrano più influenzati dalla parlata veneta.

Sempre pensando al mio passato penso ai toscani. Qui gli artisti popolari sono innumerevoli e credo che, fra tutti, Roberto Benigni li rappresenti nel modo più “puro”. L’accento è esuberante, molto confidenziale e spesso irridente nei confronti dell’interlocutore (il fiorentino di città, tipo Matteo Renzi, tende ad diminuire queste caratteristiche e ad essere più “affilato”).

Saliamo ai lombardi. Se tentate di scimmiottare la parlata lombarda sono quasi certo che: 1) parlerete più in fretta 2) parlerete di lavoro o comunque di un’estrema concretezza, anche se state parlando d’amore o di poesia!

Il più noto cliché relativo ai piemontesi li vuole “falsi cortesi”. In effetti sono “polite”, formali, eleganti anche se stanno scaricando la frutta alle 5 della mattina i mercati generali. Sembrano un po’ “d’antàn”. Li rappresentano ancora bene attori del passato come Macario o Dapporto. Non mi dà la sensazione di essere un accento “moderno”.

I liguri – lo dico con simpatia ma loro lo sanno già – non riescono a liberarsi da una venatura malinconica e dolente. Pensate al grande De André o al moderno “Gabibbo” (“eh… belandi…”). Hanno già osservato in tanti di come l’intonazione assomigli molto a quella della lingua portoghese, che ispira quel gigantesco filone di musica brasiliana, fatta con la chitarra e voci sommesse o nostalgiche.

Scendendo per l’Adriatico salto Abruzzo e Molise, di cui non sono riuscito a trovare connotazioni definite. Mi viene in mente la parlata del giudice Di Pietro, che aveva caratteristiche generali centroitaliane.

Arriviamo alla Puglia. Qui mi ha aiutato Renzo Arbore (foggiano) con una prima sua osservazione che sta alla base di tutto questo mio “studio”. Notava che i pugliesi parlano sempre in modo aggressivo. Prendete comici come Lino Banfi o Checco Zalone, anche quando dicono le cose più dolci o divertenti non rinunciano a farlo con un particolare cipiglio, una specie di grintoso modo di porsi verso il mondo. Ricordo una cara amica che quando mi vedeva mi stampava un severissimo “Marco!” che spesso mi faceva preoccupare di averle fatto qualcosa di male. E invece voleva solo salutarmi nel modo più affettuoso.

Sui calabresi non sono molto “preparato”. Hanno quello strano modo di parlare a scatti, che sembra che l’alimentazione di ossigeno si apra e si chiuda ritmicamente nelle loro corde vocali. Forse mi vien da dire che il loro modo tipico di parlare sembra sempre voler spiegare o giustificare qualcosa. Ma non so descriverlo bene.

I siciliani sono famosi nel mondo per la loro omertà. Lasciando stare quella legata a fatti criminali, è comunque caratteristico (più dei palermitani che dei catanesi) un loro modo di “dire e non dire”, di parlare solo dopo aver soppesato a lungo i concetti.

Qual è il primo aggettivo che vi viene in mente per i sardi? Chi prova ad imitarli li raffigura quasi sempre puntigliosi, testardi, orgogliosi, convinti, decisi.

Infine le due macro-regioni che fanno capo alle metropoli di Roma e Napoli.

In Campania va distinto il napoletano del centro, dei quartieri alti, che parla in modo rifinito, ironico e filosofeggiante (prendete a riferimento lo scrittore Luciano De Crescenzo). Tutto il resto della città e della regione ha un modo di parlare divenuto griffe (i napoletani che popolano il mondo sono quasi tutti di questo tipo, perché quelli borghesi del centro sono spesso rimasti legati alla loro città)

Il dialetto campano esalta la natura ultra-individualista di quel popolo. La loro frase più caratteristica forse è “chebbuò?” (“cosa vuoi?”) detta con il classico tono e la classica gestualità, che tende ad invitare ciascuno a cercarsi il suo percorso di vita e la sua fortuna.

Il romano invece è un po’ più omogeneo agli altri abitanti delle province e regioni limitrofe. Anche qui c’è un’esclamazione caratteristica che è “Aho!”. Attori come Montesano, Proietti, Stoppa, Brignano, Battista o cantanti come Venditti e De Gregori hanno promosso la figura di un romano fatalista, a volte un po’ saccente e maestro nell’ “arrangiare” e arrotondare le avversità (si noti la mitica espressione “sticazzi” che significa “non me ne importa niente” e che ha il potere riconosciuto di far abbassare qualsiasi tensione).

 

E all’estero? Chi sa sfuggire ai cliché nel simulare le parlate degli stranieri? La marzialità dei tedeschi, la raffinatezza dei francesi, il self control degli inglesi, la faciloneria degli americani, il formalismo degli svizzeri, la sensualità degli spagnoli… Chissà come siamo rappresentati noi all’estero…

 

 

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