Bonaccini il democratico

Stefano Bonaccini è il prototipo del buon amministratore emiliano-romagnolo degli Anni Duemila. Ha un’età intermedia fra il Novecento e il futuro; un aspetto fisico curato, senza eccessi glamour; un percorso di studi ineccepibile; un’onestà specchiata nella conduzione dei pubblici uffici che ha ricoperto (gliela riconoscono anche gli avversari). Sa parlare – in modo fluente, competente e credibile, con un accettabile tasso di piacevolezza – all’alta società che chiede crescita e al sottoproletariato che chiede consumi; all’alta cultura che chiede grandi eventi e a quella popolare che chiede spazi di base; all’industriale che chiede sviluppo e investimenti e al militante ecologista che vuole decrescita e salvaguardia.

E’ immune da tutti gli assolutismi del Novecento: non è comunista, non è fascista, non è ultracattolico, non è ultraliberale. E’ una persona seria, democratica, onesta, equilibrata, moderna, colta, capace, abbastanza simpatica. Quel tipo di profilo che l’Italia più illuminata e progressista ha inseguito per decenni.

Perché, allora, l’esito della sfida elettorale alla cameriera scema di un volgare fanatico è stata in dubbio fino alla fine? Perché, nelle piazze che si sono riunite dopo le elezioni, più che di una vittoria, si parlava di uno scampato pericolo? Perché molti lo hanno votato “turandosi il naso”, solo perché gli “altri” erano in-votabili? Perché le giovani sardine non lo hanno mai nominato una volta nei loro incontri e non hanno mai dato un’indicazione precisa in suo favore (che doveva desumersi solo per esclusione del voto alla sua avversaria)?

Risposta: perché manca la canzone. Manca la parola d’ordine. O meglio: le parole d’ordine sono di fascino modestissimo. Onestà, merito, efficienza, servizi, solidarietà… roba da vecchi. I grandi ideali politici hanno avuto slogan penetranti e fascinosi: “Rivoluzione ed uguaglianza!” (i comunisti), “Dio Patria e Famiglia!” (i fascisti), “Un milione di posti di lavoro, tv e figa per tutti!” (il berlusconismo), “Vaffanculo!” (il movimento 5 stelle).

La piazza che festeggiava Bonaccini, ieri sera, non gridava nulla. Sottolineava, a mezza voce, la soddisfazione per aver battuto gli “altri”.

Un’eccitazione politica soporifera, da socialdemocrazia nordeuropea. Il modello più alto e avanzato di organizzazione politica che gli esseri umani si siano mai dati. Ma… a voi sarebbe piaciuto vivere in Norvegia o in Svezia? Forse sì, per un po’, se eravate disperati qui (mi viene in mente il film di Checco Zalone). Ma poi ad un po’ di “casino” pare che nessun italiano sappia rinunciare. Come possiamo innamorarci di un sistema sociale che promette solo autobus in orario, scuola organizzata, una lista di attesa breve per la visita in ospedale della nonna? Tutto qui? Siamo solo questo? Possiamo essere solo questo? E’ una specie di ammissione di sconfitta. E i nostri sogni? E i grandi orizzonti? Siamo a questo mondo solo per passarci un centinaio di anni serviti e riveriti? E gli strumenti democratici tradizionali sono in grado di gestire le emergenze della modernità? O ci vuole “altro”?

A molti la democrazia e la libertà sembrano troppo poco. Manca l’incanto e allora si corre dietro ad un pifferaio dopo l’altro. Quando il piffero stona ci rifugia nella cara e vecchia serietà, nel male minore, nella buona società realista, funzionante benché priva di sogni e spesso richiamata in emergenza a rappezzare i guai altrui.

E’ stato bello, per molti, credere al comunismo, alla vita dopo la morte, all’ultralibertà ricca di consumi, all’ “uno vale uno e decide il popolo”, al “popolo contro le èlites”, al “no a Roma ladrona”, al primato della razza, ad un internazionalismo demodè…

Poi, quando si rinsavisce, si torna (speriamo) ad una buona democrazia, che è la peggior forma politica di governo ad eccezione di tutte le altre. E che, personalmente, è quella che ho sempre preferito.

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