1985 – E’ stato Salvatores… E a quella partita ho fatto tardi
Giugno 1985. Diciotto anni ancora da compiere. Code splendide di primavera. E’ già sera ma c’è ancora luce. Mia sorella Valentina è pronta. Io mi sto mettendo le scarpe. Andremo a vedere un torneo di pallavolo nel piazzale di una storica chiesetta del centro.
La televisione è accesa per nessuno. Trasmette un festival musicale. Nella sigla iniziale compare un artista che conosco e stimo, da buon ascoltatore di musica italiana d’autore quale già sono.
Suona un pianoforte a coda in mezzo a un prato. Immagine bucolica e coraggiosamente demodè, in tempi di suoni elettronici, di ambientazioni spaziali, di introspezioni livide e contorte.
Qui invece è tutto aperto. Al pianoforte sul prato e agli intensi primi piani del protagonista si alternano immagini di quotidianità e di banalità cittadine: passeggio in centro, bambini buffi, piazze, bar.
Dovrei sbrigarmi, le partite stanno per cominciare. “La vita è adesso…”, dice la canzone. Il cantante è quello che conoscevo, ma ha i capelli corti. Non parla più da ragazzo; è diventato padre e uomo. Accetta il ruolo di giovane saggio, di capo-comitiva. I soggetti del testo non sono i suoi classici “io” e “tu femmineo”. Stavolta ci sono concetti collettivi, di comunità. Una connotazione del testo che mi affascina subito e che trovo essere il tassello mancante nel percorso di questo artista, che mi era sembrato superficialmente troppo concentrato, fino a quel momento, sulle tematiche sentimentali.
Valentina e le partite possono aspettare. Il regista (imparerò dopo trattarsi del grande Gabriele Salvatores) indugia sul dettaglio casalingo di una mano che prende un pigro appunto su un notes, probabilmente una parola, una nota, una magia fissata per sempre sulla carta che tornerà utile per qualche canzone. E, subito dopo, l’artista che esce con vestito di scena, consapevole di avere qualcosa di interessante da cantare, da dire e da proporre.
“La vita è adesso”. Ho 17 anni, quasi 18. Il concetto mi si addice.
“Sei tu che farai questo… che farai quello… che farai quell’altro…”. Ottimo. Se mi impegnerò forse potrò meritarmi qualcosa in questo buio tunnel che chiamiamo futuro. Dipenderà dalla fortuna, ma anche da me. 17 anni… era il caso che qualcuno me lo dicesse con questa chiarezza.
“Sei tu… sei tu… adesso… adesso…” il ritmo del brano si fa incalzante. Claudio sta chiamando a raccolta un popolo, quasi un componente alla volta: “tu, tu, tu…”. Quel popolo che, in parte, era già affezionato a lui (e non lo abbandonerà) perché era un bel giovane che cantava l’amore come nessun altro. E in più un pubblico e un popolo nuovo, che riceve parole utili alla crescita come singolo individuo e come comunità.
Ok, sigla finita. Vado alla partita. Da qualche tempo faccio le cronache sportive per una radio locale. Ho accesso al loro sterminato archivio di dischi e al mixer dove li posso duplicare sulle musicassette, perché la paghetta settimanale è quel che è e non consente di comprarli tutti. Trucco illegale e innocente allo stesso tempo. Col tempo restituirò con gli interessi quel piccolo furto della sua prima produzione.
Ascolto tutto per settimane. Questo tizio è obiettivamente “sbocciato” adesso con le tematiche di cui sopra. Ma se stavo un po’ attento potevo anche capirlo prima che c’era qualcosa di diverso da passerotti e baci rubati sulle scale. Colpa sua, che è stato bravo come nessuno a cantare l’amore dolente ed adolescenziale, a fare soldi e fama con quello, facendo diventare le corde delle sue stesse chitarre una prigione di preconcetti che lo rinchiuderà a lungo agli occhi di molti.
Sono ancora in tempo. Mi iscrivo idealmente a quell’umanità in cammino che lui abbracciava in quel richiamo “sei tu… sei tu…”. E non mi cancellerò più, lungo tutti questi anni.
L’estate successiva il Tour “Assolo” fa tappa allo stadio di Rimini. Gli anni, adesso, sono quasi 19. Per la prima volta l’utilitaria di famiglia mi viene concessa per un viaggio fuori città. Gomitate e spintoni all’ingresso, happening di panini e bibite sul prato, come usava allora. Poi un buio improvviso e amplificatori a palla. Una sferzata brutale e indimenticabile. Voglio rimanere idealmente su questo prato e in questo stadio per sempre. E, in un certo senso, quasi ci riesco.
Dopo 40 anni, 80 concerti, 3 interviste e decine, forse centinaia, di serate “a tema” stiamo ancora cercando di trovarci fra ragazzi (non importa l’età), riprendere quell’utilitaria (non importa la cilindrata), raggiungere quell’ideale prato (non importa dove), ingannare l’attesa con quei panini (non importa il menu), attendere quel buio, quella voce e la sua inesausta capacità di trasmettere un suono ammaliante e un racconto intelligente della vita.