Tokio 2020 21 – Il mio smartworking olimpico
Sono sempre stato un grande fan dei Giochi Olimpici. Mi ha sempre affascinato l’idea coraggiosa e lungimirante del barone Pierre de Coubertin: i simboli dell’internazionalismo pacifico, la cadenza quadriennale che accresce allo spasimo l’attesa degli atleti e mette la città olimpica al centro dell’attenzione mondiale.
Ogni edizione è una miniera di racconti umani incredibili: li seguo da sempre con interesse. Ogni partecipazione olimpica, anche la più insignificante, è un piccolo romanzo che non mi stancherei mai di leggere.
Da bambino ho sognato di partecipare alle Olimpiadi come atleta; da ragazzo sognavo di frequentare i villaggi olimpici per fare gli incontri che ritenevo i più stimolanti (con atleti e atlete di tutto il mondo); ho sperato di essere inviato come giornalista; poi mi sono “accontentato” di sognare una semplice partecipazione da spettatore ad una cerimonia di inaugurazione o di chiusura. Alla TV le ho sempre seguite tutte, ma ancora, dal vivo, non c’è stata occasione.
Sono andato a visitare il museo olimpico di Ginevra, ho messo i cinque cerchi olimpici nel mio biglietto da visita.
Negli ultimi anni l’interesse è un po’ sceso: nelle Olimpiadi della globalizzazione c’è troppa politica (c’è sempre stata, ma la giovane età mi permetteva l’ingenuità di non farci troppo caso) e meno poesia, meno folklore, meno imprevedibilità, perché, quando si arriva ai Giochi, tutti sanno già tutto di tutti. E un Abebe Bikila che si presenta alla partenza della maratona senza scarpe non lo si vede più.
Le Olimpiadi del 2020 si sono tenute nel 2021. Lo spostamento è un tributo che reputo assurdo ad una psicosi che non ha risparmiato nemmeno un evento gigantesco come questo. Anzi, la rappresentazione del microscopico virus che sconfigge i giganti del mondo è stata un’arma importante in mano alla propaganda psicotica. E non è bastato il rinvio: i Giochi si sono svolti in un clima livido e spaventato. Il termine “blindato”, che si usava solitamente per le prevenzioni anti-terroristiche – si è traslato alla tutela dal virus: spalti vuoti (una coltellata al cuore), atleti mascherati (scandalo, vergogna, infamia, schifo infinito), protocolli intrisi di follia per la permanenza di atleti e tecnici nel villaggio e negli altri luoghi dei Giochi.
Lo sport dovrebbe agire per “bolle al contrario”, prive di controlli. Ovvero costituire delle enclave dove chi entra (atleti, tecnici pubblico) assume dichiaratamente il rischio del contagio, connesso alla propria attività (come il rischio di un qualsiasi altro infortunio) e viene isolato solo in caso di malattia sintomatica. Ho il sentore che i risultati sanitari sarebbero gli stessi che si ottengono con i metodi lividi e liberticidi che si usano adesso, ma ho la certezza che almeno una prova, in tale direzione, andrebbe fatta, per poterne misurare gli effetti.
Veniamo alle gare.
La TV.
La copertura televisiva in chiaro dei Giochi è stata affidata alla RAI. Ahia. Mi accingo a vedere la Cerimonia Inaugurale (fantastica!) e scopro che il commento è stato affidato per l’ennesima volta a Franco Bragagna. Ri-ahia. Però sarà accompagnato al microfono da Julio Velasco, l’uomo di sport più colto e profondo che abbia mai conosciuto. Respiro. Ma per poco. Bragagna dà una scandalosa dimostrazione della suaarroganza, presunzione e ignoranza dei più semplici meccanismi di comunicazione e di public speaking, sovraesponendo le sue conoscenze (che sono invero molte) e mortificando il pensiero del suo prestigioso co-conduttore. Dopo l’ennesima, inutile, fastidiosa, maleducata, dissonante interruzione del pensiero di Velasco decido che è troppo. Faccio in pochi secondi l’abbonamento a Discovery Plus (8 euro per tutta la durata dei Giochi) e passo alla pay tv.
Per 15 giorni ho alternato la visione su Discovery e sulla RAI con il solito orecchio attento alla qualità e allo stile dei cronisti. Li ho trovati tutti molto bravi ad eccezione di due. L’arroganza di Bragagna nel gestire le altre voci non è tollerabile dal mio orecchio, anche se, quando può monologare indisturbato, gli riconosco eccellenti doti di narratore sportivo, che hanno avuto la grata possibilità di esaltarsi sui prodigi di Jacobs, Tamberi e degli staffettisti, che saranno l’apice e l’icona inviolabile della sua carriera al microfono. Pessimo, come sempre, anche il commento del volley affidato a Maurizio Colantoni per motivi opposti a quelli di Bragagna. Qui c’è proprio poca qualità, poca conoscenza, poca originalità e manca il contributo emotivo ed epico all’evento, che cerca di affidare ad una voce fastidiosamente e falsamente enfatica, da guitto scarso. La seconda voce è del grande Andrea Lucchetta, che cerca di compensare i deficit della prima voce con le sue competenze e le sue brillanti intuizioni. Ma è costretto a sovraesporsi e a molti finisce col non piacere (a me sì, però). Molto bene l’altro telecronista, Marco Fantasia, pulito e preciso. La seconda voce è di Giulia Pisani, brava e preparata, che deve scrollarsi di dosso quell’impostazione da secchiona che deve-dimostrare-che-è-anche-brava-e-non-solo-bella (e lo è molto).
Ho rivisto con piacere l’ottimo Jacopo Volpi nel salotto post-gare (ma la chimica di trasmissione con Fiona May e Velasco non era delle migliori), mentre non mi è piaciuta Alessandra De Stefano (di solito ottima cronista di ciclismo) nella conduzione di una trasmissione serale troppo affollata e caotica.
I 100 metri.
I cento metri piani maschili sono la gara più importante dei Giochi. Lo sono perché riproducono il gesto sportivo che TUTTI gli esseri umani pervenuti sulla Terra hanno compiuto più volte e quello che TUTTI potrebbero ancora teoricamente compiere oggi stesso: correre per una decina di secondi. Un gesto atavico, semplice, alla portata di tutti. Vincere questa gara ha una dimensione ultra-sportiva e antropologica che nessun’altra gara può dare.
Per questo motivo il trionfo di Marcell Jacobs è un successo incredibile per la nostra nazionale e quella medaglia vale quasi tutte le altre della spedizione azzurra messe assieme. Il tempo di 9’’80 è il decimo della storia, preceduto solo da 9 altri atleti, tutti statunitensi o giamaicani. Jacobs è l’uomo attualmente più veloce del mondo, fra 7 miliardi e mezzo di
uomini. Il decimo più veloce della Storia, fra oltre 100 miliardi di esseri umani giunti sulla Terra. Una sensazione che stordisce.
I 100 metri piani maschili sono quindi “il cento”, il massimo, il valore di riferimento. Quali altri gesti possono dirsi vicini a questo valore atavico di dimostrazione sportiva per semplicità del gesto e ripetibilità da parte di qualunque essere umano? Alcuni altri dell’atletica, come i salti e i lanci. Il nuoto a stile libero su distanze brevi. La ginnastica a corpo libero. Forse la lotta (ma l’abbondanza di specialità e di categorie sfuma il concetto di “migliore”) o il ciclismo (anche qui moltitudine di specialità e non prevalenza dell’appuntamento olimpico nell’agenda dei corridori migliori). Poi ci sono specificità locali: per esempio alle Hawai usare il surf è come correre i cento metri; nelle regioni montuose lo sci ha quello stesso valore, ecc.
Poi ci sono i “giochi”, che non sono un gesto basic del vivere umano, ma che lo sono diventati nella fortunata epoca che viviamo e che consente in tutto il mondo, a tutti, almeno da ragazzi, di avvicinarci ad essi anche solo per qualche minuto. Il calcio, il basket, la pallavolo, il tennis. Anche qui asterisco per basket e tennis (che non hanno l’appuntamento olimpico in cima all’agenda dei propri praticanti) e doppio asterisco per il calcio (che nemmeno porta i migliori alle olimpiadi e che è, da sempre, un corpo estraneo, come il rugby e il baseball). Il mostruoso numero di praticanti e la risonanza di queste specialità rende incongruo il fatto che esse assegnino una sola medaglia d’oro, mentre alcune altre ne assegnino carrelli pieni in virtù della suddivisione in specialità e categorie.
Come si potrebbe ovviare? Un metodo ce l’avrei. Considerare “a squadre” anche gli altri sport. Facciamo un esempio: il pugilato. Si disputano le gare di tutte le categorie, ma la medaglia d’oro va alla nazione che ha avuto un risultato complessivamente migliore sommando i risultati di tutti i pugili. Durante la premiazione tutti i pugili salirebbero sul podio, come giocatori di un’unica squadra.
Ovviamente non lo faranno mai, ma almeno ufficiosamente, un medagliere con questi criteri andrebbe compilato.
Bisognerebbe poi riflettere su alcuni sport che non soddisfano i criteri che ritengo fondamentali per l’inserimento nel programma olimpico: l’internazionalità (vincono sempre le stesse nazioni); il numero di praticanti (ridottissimo e circoscritto a pochi Paesi), il gradimento televisivo (guardare certi sport è divertente come un pomeriggio al catasto; in tv non li guardano neanche i parenti di quelli che li fanno); l’auto-sostentamento (molti sport sono privi di pubblico, sponsor e introiti, perché non piacciono a nessuno, e deve intervenire il merendone pubblico con gli abbondanti finanziamenti in chiave olimpica e l’inquadramento degli atleti nei ranghi dello stato: fiamme qua, fiamme là, stellette e mostrine, ecc).
Si dovrebbe pensare alla loro rimozione dal programma olimpico o al loro ridimensionamento. Non fatemi fare esempi. Anzi, ne faccio uno: il pentathlon moderno. Una follia che richiede ad un atleta la vicinanza e l’accesso ad una piscina, ad un poligono, ad un maneggio e ad una palestra di scherma! Nessuno può essere in questa condizione ad eccezione di un miliardario o di qualche militare sfaccendato.
Il medagliere.
Con un guizzo nell’ultima giornata di gare gli Usa hanno superato la Cina, che aveva sempre condotto il medagliere per nazioni nei giorni precedenti. E’ significativo che il sorpasso sia arrivato grazie agli sport di squadra, che avevano le finali l’ultimo giorno. Sono sport di grande richiamo come il volley (oro F) e la pallacanestro (oro sia M che F). Le medaglie degli Usa vengono dagli sport che piacciono di più alle masse, perché sono quelli che, grazie a tv, sponsor e pubblico, riescono a pagare meglio gli atleti e ad indurli a quelle pratiche, mentre le altre vengono disincentivate (non si sono statunitensi di vertice nel canottaggio, in quasi tutti gli sport di combattimento e di pesi e altri). La Cina prevale su quegli sport dilettantistici dove solo un massiccio intervento del denaro pubblico (che in Cina abbonda), consente agli atleti di vivere di quell’attività “minore” in chiave di un risultato olimpico e del valore geopolitico che la Cina trae dall’esibizione di un buon medagliere.
Mi segnalano lo sfogo di un sollevatore di pesi greco che si è lamentato della sua indigenza economica. Bello mio (mio calòs), se abiti in un Paese povero e non hai una famiglia che ti foraggia, non puoi pensare di campare sui tuoi risultati in uno sport totalmente inguardabile e inguardato. Goditi l’esperienza e il tuo risultato olimpico e, da bravo, ti cerchi un lavoro. Non è perché uno “pratica uno sport” che la sua comunità nazionale deve automaticamente incaricarsi di mantenerlo. Sarebbe bello, ma non è sempre possibile.
Il Giappone massimizza il fattore-campo (ma non mi segnalano vantaggi smaccati da giurie compiacenti); la Russia tiene nonostante la persecutoria decisione di non farla gareggiare con il proprio nome, la propria bandiera, il proprio inno, per scontare colpe di doping di stato ovviamente non riconducibili agli atleti in gara a Tokio 2020 (pensavo che quella squadra nazionale avrebbe interpretato le Olimpiadi, con disinteresse e senza la dovuta intensità).
Fra il settimo e il decimo posto troviamo, praticamente a pari merito, quattro nazionali della Vecchia Europa: Francia, Germania, Olanda e Italia (la Gran Bretagna, come tradizione, viaggia leggermente sopra). L’Italia realizza il record storico di medaglie (40). Si obietta che la cosa è resa possibile dall’aumento delle medaglie complessive in palio e ovviamente l’osservazione ci sta. Ma va integrata dal fatto che è in continuo aumento anche il numero delle nazioni competitive nello sport. Alle Olimpiadi di Roma (1960) era sostanzialmente una faccenda fra europei e nordamericani. La Cina non partecipava, l’Africa era folklore, le piccole nazioni non avevano comitati olimpici in grado di investire sui propri talenti. Alle Olimpiadi di Tokio si è battuto il record di nazioni a medaglia (86, con la martoriata Siria a chiudere orgogliosamente la classifica) di cui ben 65 con almeno un oro. Quindi il risultato complessivo della vecchia, spaventata, imbolsita, impigrita e imborghesita Italia è da considerarsi sontuoso (si consideri che quest’anno è venuto meno il doping metallifero della scherma) e va ascritto in buona parte alle massicce infiltrazioni di atleti di origine africana, biologicamente essenziali per primeggiare in alcune specialità.
Stare al passo della Francia e della Germania (nel 1989, quando Est e Ovest si riunirono, pensai che la Germania Unita avrebbe dominato i medaglieri in secula seculorum) è un grande risultato. Credo lo sia da considerare anche per la piccola Olanda.
Tenuta per Cuba (14a) nonostante la crisi; meglio del solito la Svezia (23a) per quanto costretta a convivere, come altre Nazionali, con mascherine del cazzo che nel loro Paese non si usano.
Staccata la Spagna (24a) che alcuni anni fa sembrava poter dominare in molte specialità. C’era evidentemente “qualcosa” che non quadrava.
Modesto il risultato delle altre ex repubbliche dell’Urss che, se non ricordo male, erano andate molto meglio nelle precedenti edizioni.
Non c’è verso, invece, di far fare una figura decorosa all’India (1miliardo e 350 milioni di abitanti, 7 medaglie, un solo oro) all’Indonesia (270 milioni di abitanti, 5 medaglie), al Pakistan (200 milioni di abitanti, virgola medaglie) e ad altri Paesi, soprattutto asiatici, ancora in ritardo nel considerare l’importanza dello sport come meccanismo di affermazione internazionale e per le quali non si trova una specialità che li renda capaci di eccellere. Si è provato col badminton o con l’hockey su prato, ma niente, non vincono neanche lì).
Gli highlights
Nella mia personale classifica delle emozioni non potrò dimenticare l’impensabile vittoria di Jakobs e la rimonta di Tortu nel finale della staffetta, che mi ha immediatamente ricordato la prodezza di Mennea a Mosca 1980: ancora una corsia esterna, ancora un rettilineo finale approcciato con svantaggio, ancora l’inesorabile recupero e l’infilata sull’avversario (anche questa volta un britannico!!!) all’ultimo respiro. Eccezionale! Straordinari i ciclisti del quartetto su pista. Grandi Paltrinieri e Vanessa Ferrari, anche senza l’oro e grandissima Federica Pellegrini anche senza medaglia. E l’ultimo urlo è stato per una vittoria “straniera” alla quale, però, ho riservato il tifo delle grandi occasioni: King Karch Kiraly ha vinto il suo quarto oro olimpico alla guida delle ragazze USA del volley (contro il Brasile che esibisce peraltro il fanatismo di un’atleta che scende in campo con tanto di mascherina del cazzo addosso. Giusto che perda). Grandi le pallavolisti a stelle e strisce. Fantastiche loro (fra le quali Haleigh Washington, che ha giocato qualche mese a Ravenna). E mitico King.
Le delusioni
Pensavo che l’Italia di volley femminile sarebbe arrivata a medaglia e ipotizzavo anche quella d’oro. Le cose sono andate male e non ho ancora capito perché. Più “normali” le sconfitte ai quarti del volley maschile, del beach volley e del basket, dove per vincere di più ci sarebbe voluta molta fortuna.
I colori.
Una mia riflessione che faccio da qualche tempo. Ci sono molti sport minori (pallanuoto, pugilato, taekwondo, lotta, ecc) sono costretti ad utilizzare abbigliamento di due soli colori prestabiliti e sorteggiati prima degli incontri. Per facilitare la riconoscibilità degli atleti sarebbe opportuno far loro indossare le divise con i colori nazionali. Davvero non capisco perché non venga loro concesso.