Millenovecentottantaboh
(introduzione al libro “Storie Incrociate” di Autori Vari).
La mia presenza su queste pagine risponde all’invito dell’amico Gianni Bianco di creare un puzzle letterario di argomenti, stili e testimonianze.
L’invito è elegante e gentile, esattamente in tono con la persona che me lo ha rivolto. Ha in sé qualcosa che mi spinge e a credere che lo accetterò. Un qualcosa di familiare, di creativo, di rassicurante, di stimolante, di progressista, di divertente, di intelligente, di socializzante, di trasognato. Un qualcosa che parte con ambizioni sobrie e miti e definisce una preferenza per il piacere del percorso condiviso rispetto alla gratificazione dell’eventuale destinazione che si raggiungerà.
Mi chiedo perché attribuisca tutte queste caratteristiche socio-letterarie ad un individuo che vedo e frequento piuttosto poco, per quanto ogni volta volentieri.
Per scoprire devo retrocedere al tempo della prima conoscenza. E quindi retrocedere. E retrocedere. E retrocedere…
Eccoci arrivati. La macchina del tempo mi scodella nel millenovecentottantaboh. Da qui in poi i numeri contano pochissimo. Le date quasi niente. Parleremo di un magma, di una gelatina avvolgente. Gli anglosassoni direbbero di un “mood”. Nel millenovecentottantaboh avevo circa ventiboh anni. A me sembrava che avessero tutti ventiboh anni.
Se tutto il mondo compì 18 anni nel 1968 a me sembrava che il mondo ne compisse ventiboh nell’ottantaboh.
E non azzardatevi a rovinare con una banale verità la magia di un bel racconto.
Chiarito in modo approssimativo il “quando” – il millenovecenttottantaboh, appunto – vediamo di illustrare il “dove”. Qui possiamo essere più precisi. Siamo a Ravenna, territorio di Romagna (e non di Emilia, come anche persone culturalmente preparate tendono a dire, sbagliando).
Ravenna! Città di provincia, a quattro pedalate da una spiaggia vivace e rilassante, con un centro pieno di spettacolari monumenti bizantini, circondata da una pineta profumata, da una campagna generosa, dotata di un porto mercantile e di industrie petrolchimiche che garantiscono lavoro e benessere in cambio di un po’ di puzza, di un mare un po’ torbido e di un reparto oncologico piuttosto movimentato.
A Ravenna, nel millenovecentottantaboh, “comanda” il Partito Comunista. Il grande Partito Comunista, che accarezza il 50% dei voti (in provincia lo supera) e interpreta il concetto di “potere” in modo tutto sommato tollerante e pluralista, secondo uno schema che si accentuerà negli Anni Novantaboh: consociativismo, riduzione e ricomposizione dei contrasti più affilati di quello che dovrebbe essere il partito dei lavoratori proletari con le controparti “naturali”: l’imprenditoria, la Curia, i negozianti, l’intellighenzia borghese… Mio padre riassume efficacemente: “A Ravenna, finché ci sarà la giunta comunista, comanderanno un po’ tutti”.
Cosa c’entra il Partito Comunista con i ventibohenni ravennati che si affacciano all’età adulta?
Qualcosa c’entra. I giovani ravennati degli Anni Ottantaboh – anche i figli di operai – hanno ricevuto una buona istruzione, hanno quasi tutti preso un diploma, quasi tutti sono universitari più o meno assidui. Tutti sentono fra le mani la possibilità di far “esplodere” il loro livello di consumi personali, che ha buone possibilità di surclassare quello delle generazioni precedenti: sono gli anni dei TVColor, di tanti motorini anche per i 14enni, dell’auto (magari un’utilitaria, o magari quella di papà) subito sotto il culo dei diciottenni, di una moda più ricercata e ricca di “marche”, di settimane bianche, di viaggi all’estero, di alimentazione sofisticata e variata, di cinema, letteratura, musica, teatro, televisione, sport… droga, fruibili in quantità bulimiche, in confronto a quanto dato ad avere ai padri e ai nonni.
I giovani più brillanti, dalla mente più vivace, dall’educazione sociale e civica più sviluppata, sanno poi guardare oltre il proprio portafoglio e il proprio garage. Si interessano di politica, sentono che una felicità propria può essere tale solo se condivisa col prossimo. In buona parte i giovani, a Ravenna, hanno pensieri “di sinistra”. Un po’ per la tradizione di famiglia, un po’ per l’educazione ricevuta, un po’ per quella avvolgente sensazione di Romagna che ti stordiva con l’attivismo della Federazione Giovanile Comunista (FGCI); con i magnetici Festival dell’Unità nei grandi spazi e in quelli piccoli, di quartiere o di paese. Ma anche dove il Partitone non stendeva i propri tentacoli diretti tutto sembra funzionale ad un pensiero progressista: i movimenti per la Pace, i movimenti ambientalisti, le associazioni di ex Partigiani, i collettivi femministi…
I movimenti cattolici sono alle corde (ci vorrà la sferzata rivoluzionaria del pontificato di Woitila per farli risorgere), i fascisti sono ai margini (“nelle fogne” come si diceva allora), i movimenti liberali hanno percentuali da prefisso telefonico e non eccitano (ancora per poco) i ragazzi. La maggior parte della gioventù, quindi, è “di area”: un arcipelago progressista gigantesco, con un’isola di riferimento (il Partito) e un magma energetico di mille colori.
Stiamo per arrivare a Gianni. Sto per arrivare a Gianni. Ancora un po’ di pazienza.
A casa guardo tanta televisione. Mi piace soprattutto lo sport. Più che dalle partite o dagli eventi sono affascinato dalle voci che li raccontano, dalla costruzione televisiva delle trasmissioni. Sono molto giovane, ma a volte sbuffo contro i telecronisti. “Perché non sottolinea questo episodio? Perché non spiega questa regola? Perché non mi dice qualcosa di più su questo campione straniero? Perché non usa un linguaggio più divertente e più tecnico allo stesso tempo? Perché non parla un po’ più in fretta? Perché non si “scalda” di più quando qualcuno vince, quando si segna un gol, quando succede qualcosa di importante?”.
Io lo farei. Io lo saprei fare forse meglio. Io, se fossi al suo posto, mi preparerei bene e terrei tutti lì appiccicati ad ascoltarmi. E la stessa cosa potrei fare se scrivessi. Inventerei rubriche, darei più spazio ai personaggi, curerei statistiche, inquadrerei gli eventi parlando della città dove si svolgono, dell’impatto che hanno sul pubblico, racconterei mille curiosità che il pubblico non può vedere o sapere…
Ci sono alcune compagne di scuola che giocano a pallavolo. Sono brave, sono bravissime. Alcune di loro potrebbero andare a giocare nella squadra di Serie A che, all’epoca, domina il campionato ed è l’orgoglio della città. A me sembra un onore speciale (ehm, la luce del tempo lo ridimensiona, ma a me allora sembrava tale) conoscere per primo quelle che presto conosceranno tutti come grandi campionesse.
Vorrei far valere questa mia “priorità”, questa possibilità di un racconto sportivo così interessante.
Cosa potrei fare? Ecco che arriva il “Partitone”. Con una certa lungimiranza le federazioni provinciali del PCI più forti (quelle emiliano-romagnole su tutte) si dotano di strumenti per l’informazione. A Ravenna hanno una radio privata (a quel tempo si chiamavano “libere”, quelle che erano nate come funghi in tutta Italia) e un settimanale di informazione. Si chiamano “Radio Sound” e “Il Nuovo Ravennate”. A casa mia sono ascoltati e letti con attenzione. Usano linguaggi nuovi e freschi, raccontano il territorio, danno voce a realtà del lavoro e della cultura della nostra terra, descrivendone le eccellenze e le peculiarità. Attraverso le frequenze di Radio Sound, con un complicato e ingegnoso sistema di ponti radio, alcune voci che mi diventano subito familiari, raccontano le vicende della nostra squadra di calcio, della pallavolo di serie A, della pallacanestro… Li ascolto tutti con partecipazione. Sono molto bravi e preparati, ma sento che potrei diventare uno di loro. Chissà se me ne daranno l’occasione.
Sì, me la danno. C’è bisogno di coprire le partite della serie B femminile, quella delle mie compagne di scuola. Mi chiama un certo Luciano, un tipo più anziano di me, buono, gentile, fantasioso, dal baffo beffardo, dai linguaggi pieni di una poesia naif.
Vado. Penso tra me e me che spaccherò tutto, che farò un commento radiofonico senza precedenti, che trasformerò una partitella di serie B in un evento mediatico indimenticabile…
Non andrà proprio così. Chissà se dalle frequenze si percepì quella presunzione e quella prosopopea. L’evento non passò alla storia della radio, come pensavo, ma comunque me la cavai. Guadagnai altre occasioni per ripetere il tentativo, sempre con quella squadretta femminile, idealizzata come fosse un Dream Team. Intanto, ovviamente, seguivo anche le partite di serie A, andavo in trasferta, leggevo avidamente tutte le poche informazioni di pallavolo nazionale e internazionale che si potevano ottenere sulla stampa di allora. Ero informato e preparato.
Gianni, aspettami che arrivo.
Finora abbiamo parlato di “chiacchierare”, di raccontare una partita, di fare un’intervista. L’unico spazio che ospita i miei racconti in forma scritta è… il mio diario scolastico delle superiori, impostato come la pagina di un giornale, con un titolo, un sottotitolo, una foto o un disegno, gli “interventi esterni” dei compagni.
Arriva la telefonata di Giorgio, un tipo molto in gamba che il Partito ha messo a capo della redazione sportiva de “Il Nuovo Ravennate”. Il settimanale ha la sede dentro il grande palazzo del Partito Comunista. Passo attraverso l’insegna con falce e martello che è all’entrata (non è un trauma, perché la tradizione di famiglia è quella) e sono in Redazione.
Qui capisco un sacco di cose. I “collaboratori” sono molte decine, una moltitudine. Ciascuno di loro ha una passione divorante simile alla mia. Ci sono molti altri sportivi, che sono specializzati nelle varie discipline. E ci sono appassionati di rock, di sinfonica, di jazz, di teatro, di enigmistica, di videogames, di gastronomia, di animali, di dialetto romagnolo, di poesia, di biciclette, di sagre, di vini, di computer…
Poi ci sono quelli “seri” che fanno il giornalismo più impegnato e che ambiscono a farlo diventare una professione: quelli che fanno la cronaca nera, la politica, l’economia. Sono sotto contratto, prendono qualche soldo. Li sento lontani. Mi tengono lontano.
E’ il primo gruppo quello che attira la mia attenzione. Un mucchio selvaggio di creatività, di idee, di voglia di confrontarsi e mettersi in discussione. Di fare anche un casino memorabile. In redazione ci si passano molte ore, perché i computer per scrivere sono li, si usano a turno e si dovranno aspettare ancora diversi anni per avere quelle tecnologie che consentiranno di scrivere e trasmettere da casa propria.
Siamo tutti dentro la sede del Partito Comunista, coperti da una falce e da un martello. Eppure non c’è praticamente traccia di ideologia. Solo il responsabile della politica è solerte nel mettere in maggiore evidenza l’attività del Partito e del sindaco. E’ un comunismo, quello degli Anni Ottantaboh, che ha passato la sua fase più settaria e schierata. Berlinguer lo ha traghettato fuori dall’alleanza con i comunismi sovietici e dell’est europeo. Siamo giovani, ma abbiamo già capito che la rivoluzione bolscevica non si farà più, perché nessuno ha più voglia (se mai ne ha avuta) di allearsi con “loro”, di essere o diventare come “loro”. Contrordine compagni. Rimarremo in uno stato borghese. Rimarremo alleati degli Stati Uniti. Continueranno ad esistere i grandi capitali e i poveretti. Fallirà il tentativo rivoluzionario di rendere tutti uguali. Non isseremo bandiere rosse in Piazza San Pietro.
Ognuno è quindi “di sinistra a modo suo”. Chi per sensibilità ambientalista, chi per impostazione anticlericale, chi in odio alla prepotenza militare americana, chi per una posizione progressista sui temi etici e sulla morale sessuale, chi perché gravita in quell’area la maggior parte della cultura popolare del Paese (attori, cantanti, registi ecc), chi perché ha il nonno partigiano, chi perché… ma è inutile che tenti di replicare qui il mirabile monologo con cui il grandissimo Giorgio Gaber fotografò quel sentimento.
Non sarà una rivoluzione bolscevica, un cambiamento della struttura economica del potere, della produzione, del mercato, delle alleanze internazionali.
Ma potremmo fare rivoluzioni più specifiche, più cellulari, più di settore. Ognuno nel suo ambito, ognuno per quello che può dare ad una comunità, nel luogo di lavoro (quando lavorerà), nella società sportiva con cui collaborerà, nella associazione di volontariato a cui parteciperà, nelle compagnie di amici di cui farà parte, nei rapporti con l’altro sesso, con i bambini, con gli anziani che lo vedranno coinvolto.
C’è ancora un modo “di sinistra” di fare le cose, per quanto non rivoluzionario, per quanto non comunista, per quanto vago, impalpabile, indescrivibile, non misurabile. E sembra uscire dal bailamme di quella redazione e da quanto gira intorno ad essa in termini di relazioni con altri giornalisti, con altre testate, con associazioni, aziende, personalità politiche, persino altri partiti e altri mondi, apparentemente conflittuali con quello che fa da insegna al palazzo in cui ci troviamo.
Facciamo un sacco di cene, facciamo chiacchiere interminabili, nasce qualche amore. C’è qualità, c’è voglia di proporsi, ma anche quella di ascoltare. C’è voglia di sognare insieme, di costruire cose nuove, modi nuovi di parlare, di raccontare, di far crescere i nostri lettori e coloro che ci degnano della loro attenzione. E’ un crogiolo di belle intelligenze. I ritmi “sudamericani” (lenti e rimuginati) di un settimanale invogliano all’approfondimento. Ed è un po’ sudamericano anche quel modo cialtrone di sentirci “dilettanti”, di vedere con disincanto la possibilità di trasformare quell’esperienza semiprofessionale nel “pane” che ci sfamerà nel futuro.
Non ho mai più frequentato ambienti così capaci di lasciare negli anni una traccia così forte del passaggio della mia avventura umana. Sono gli amici più veri, quelli con cui ho condiviso un’onda emotiva che ricordo con grande tenerezza, non solo nel mito degli anni verdi e belli, ma nella consapevolezza che stessimo costruendo per davvero qualcosa di bello e importante. Ritrovarli ancora adesso è come ritornare al punto di allora, a quei sogni, e poterli sentire ancora intatti, almeno per il tempo di una conversazione
E’ il caso di Gianni. In quei pomeriggi di redazione in cui si parlava, si leggevano tante cose, si cresceva nella coscienza di giovani abitanti di questa città, di questo Paese, di questo mondo…
Gianni era quello della musica, del cinema, della cultura. Lo leggevo anche prima di far parte della redazione. Linguaggi secchi, tipici tuttora del suo scrivere per illuminazioni. Una scrittura probabilmente meno “mite” della sua versione “de visu”.
Ma non si possono avere ventiboh anni per tutta la vita.
“Compagno di scuola – diceva Antonello Venditti in quel mirabile brano – ti sei salvato dal fumo delle barricate? Ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?”
Nel bailamme della redazione nascono personalità, individualità, professionalità, che si metteranno in luce in vari comparti della vita culturale cittadina. Qualcuno, alla fine, si convincerà ad essere meno sudamericano e a disciplinare la propria propensione a scrivere e a raccontare la modernità, percorrendo carriere giornalistiche a volte di grande livello. Qualcuno entrerà negli uffici politici, cercando di coniugare quel trasognato concetto di “sinistra” con i nuovi panorami elettorali che si proponevano.
Io sono probabilmente fra quelli che “non si è salvato”. Che è entrato in banca (o qualcosa di simile) proprio per poter vivere con lo stesso spirito “cazzone” quel sogno adolescenziale, o al massimo da ventibohenne, di fare le rivoluzioni parlando di una partita o di una canzone. Mi hanno promosso in serie A. I giocatori che prima mi trattavano come l’ultimo arrivato, adesso mi danno del lei, addirittura qualcuno mi teme… Ho fatto tante esperienze nel mondo del giornalismo, anche ad alto livello, cercando sempre di rimanere meravigliosamente dilettante, di non farmi rubare quell’appartenenza ad una redazione che non esiste più, ma di cui sento di far virtualmente parte ogni volta che scrivo una riga. Anche mentre sto scrivendo queste.
Arriva l’invito di Gianni e rieccomi in… Redazione. Tu sei entrato in banca? Non lo so e non è, al momento, importante che io lo sappia. Siamo qui a scrivere insieme, come in quel settimanale comunista del millenovecentottantaboh che ci ha fatto diventare grandi, lasciandoci ragazzi.