Capitolo 6 – Le canzoni

LE CANZONI

 

 

E una canzone – e neanche questa – potrà mai cambiar la vita

(Claudio Baglioni)

 

 

 

Negli Anni Settanta, in Italia, le canzoni furono una cosa seria. Anche politicamente seria.

C’erano sostanzialmente due partiti. Quello inquieto e rumoroso degli “impegnati” e quello conformista e mansueto dei “leggeri”. Si potrebbe anche dire quello dei “rivoluzionari” e quello dei “conservatori”.

I confini erano piuttosto definiti e lasciavano poche zone neutre.

Al partito virtuale degli impegnati (a cui strizza l’occhio tutta la sinistra) si iscrivono quasi tutti quelli che, proprio in quegli anni, cominciano ad essere chiamati “cantautori”, ovvero autori di musica e parole che si propongono al canto, anche quando non in possesso della cifra stilistica e tecnica normalmente richiesta dalla tradizione italiana.

Gli impegnati si proclamano “di sinistra” con varie declinazioni e con rarissime eccezioni, come quella costituita da Lucio Battisti. Vestono senza eccessivi formalismi, cantano argomenti di un certo spessore sociale (contestazione giovanile, pacifismo, droga, disoccupazione, sofferenza del lavoro, diritti civili) e frequentano i festival dell’Unità, il grande crocevia con cui il Partito aggancia la cultura popolare musicale più vivace e alla moda. I nomi sono numerosissimi: da Francesco Guccini a Francesco De Gregori, da Pierangelo Bertoli a Lucio Dalla, a Fabrizio De Andrè, ai Nomadi, ad Antonello Venditti, a Giorgio Gaber a Enzo Jannacci. Oppure artisti di impegno politico più dichiarato come Dario Fo, Pietrangeli o come il siciliano Franco Trincale, stimatissimo a casa mia con le sue ballate operaiste e pacifiste, dai toni ora drammatici, ora ironici.

Sempre nel partito “impegnato” si distinguono anche numerosi artisti che non affrontano argomenti di specifico valore politico e rimangono nell’ambito di tematiche sentimentali, che però vengono affrontate con linguaggi innovativi, audaci, di rottura: facciamo, per tutti, i nomi di Gino Paoli e di Luigi Tenco che, con il suo sacrificio, crea anche una mitologia di genere. Oppure donne di grande personalità che escono dal ruolo classico di subalterna o incastonata nello schema coniugale-materno. Donne sexy, libere e determinate, come Mina, Milva, Ornella Vanoni o Patty Pravo. Tutte le ragazze che oggi fanno vanto della loro libertà dovrebbero, ogni giorno, deporre un lume votivo davanti alle immagini di queste grandi cantanti del Nord, bandiere inconsapevoli di un’Italia nuova e della sua gigantesca voglia di girar pagina in tema di regole morali e sessuali (confrontate ad esempio il differente registro di un verso come “mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare” con “non ho l’età / per uscire sola con te”)

Sono in qualche modo riconducibili agli impegnati di sinistra anche i fenomeni americani della contestazione (capostipiti Bob Dylan e Joan Baez). E, pur senza averne quasi mai grossissimi titoli, vengono “iscritti d’ufficio” anche i rockers stranieri più arrabbiati e trasgressivi, come se i loro eccessi e le loro rabbie potessero valere come testimonianza di un’indole rivoluzionaria e quindi meritevole di una sottintesa qualifica di “compagni”. I testi (ma questo lo si imparerà parecchio tempo dopo) parlano spesso di semplici ragazze e non sono troppo diversi da quelli dei Ricchi e Poveri. Ma l’inglese, soprattutto a quell’epoca, lo masticano veramente in pochi ed è più comodo pensare che quelle parole appena intuite, pronunciate in quel contesto musicale così dirompente e aggressivo, contengano le chiavi di una gioventù nuova del mondo, diversa da tutte le altre gioventù che la avevano preceduta.

Ultima corrente del variegato mondo degli impegnati, di quelli che si percepiscono “compagni”, è dato dal filone del canto popolare. Si ritiene, infatti, che il recupero di tradizioni etniche, folk, dialettali sia un gancio con la terra propriamente detta, con le radici contadine e proletarie del nostro Paese. O anche straniere, con il caso più eclatante degli “Intillimani”, gruppo etnico cileno, profugo dopo il colpo di stato di Pinochet, che i Festival dell’Unità italiani adotteranno e “sfameranno” per vari anni.

Per qualche motivo, legato, immagino, al gusto personale, non avrà albergo, presso la mia famiglia, il fenomeno – clamoroso in quegli anni – del folk romagnolo, il “lissio”, giudicato perentoriamente da mia madre con un solo aggettivo, piuttosto snob e tranchant, se ci penso adesso: “bècero!”.

E di là? Di là ci sono i “soliti”, gli alfieri del bel canto italiano, i reazionari, i benpensanti, che non screziano i loro testi con frecciate all’ordine costituito, al potere, alla religione, al comune senso del pudore come inteso nei decenni precedenti. Si vestono bene, vanno al Festival di Sanremo, non prendono posizione politica, vogliono essere applauditi solo per la loro bravura artistica e per sollecitare le tradizionali corde del sentimento nel rapporto uomo-donna o, al massimo, verso mamme e figli, o per il paesello e la natura.

Con un termine in voga allora si possono considerare “maggioranza silenziosa”. La sinistra più impegnata li avversa. Li tollera, al limite, solo come debolezza estetica da concedersi di nascosto, mentre pubblicamente si tende a tacere su un’eventuale propensione ad ascoltare con piacere artisti pur simpatizzanti di sinistra come Claudio Villa, Orietta Berti o Gianni Morandi o altri alfieri della canzonetta più leggera e priva di spessore sociale e del mitico “messaggio”.

Alla schiera dei codini disimpegnati viene iscritto anche Claudio Baglioni, talentuosissimo e fecondissimo compositore e interprete romano. Il suo “problema” è che è talmente bravo a scrivere e cantare il miracolo della gioventù innamorata (“Questo Piccolo Grande Amore”, “E Tu”, passerotti, magliette fini, baci rubati sulle scale, amori belli come il cielo e il mare, cuori impazziti di sentimenti e sensualità) che il suo corpo, la sua voce, la sua faccia, le sue chitarre diventano la gabbia dorata che lo imprigionerà per lunghissimo tempo o addirittura per sempre, agli occhi e alle orecchie di molti. Come se chi avesse cantato, meglio di chiunque altro, quel miracolo ormonale di gioventù non fosse, per definizione, in grado di fare nient’altro di diverso, di più forte, di più importante.

Gli oceanici successi dei suoi inni all’amore dolente scaldano il cuoricino rosso di varie generazioni, nella magia di una coppia di innamorati che si affaccia ad un’ideale finestra per sentire quel ragazzo con la chitarra che canta le parole che cambieranno la loro vita. Ma sotto il fuoco di questi enormi trionfi commerciali cova il geniale minimalismo di Porta Portese, il romantico anti-militarismo di Loro Sono Là o di Ninna Nanna, un filone storico (ad esempio “Gagarin”) e, in seguito, analisi sociali intrise di richiami pasoliniani come in E Adesso la Pubblicità, in Noi No, in Uomini Persi e in tante altre.

Un giorno del 1975 io e mia sorella stiamo facendo un po’ di confusione giocando fra di noi. La mamma ci rincorre affannosamente, cercando di riportarci all’ordine. Ma nel pieno della sua agitazione viene fulminata da poche note e poche parole che escono dalla radio. Sono quelle di “Poster”, dove un ragazzino attende la metropolitana in una stazione fredda e livida, mentre sogna un altrove, simboleggiato  da una palma e un’isola deserta, metafora di un luogo ideale, lontano da quel grigiore. Io e Valentina possiamo continuare a rincorrerci e a fare chiasso, perché il “pifferaio” Claudio ha colpito duro.

E’ una specie di imprinting. Porterò negli anni la convinzione che quell’autore possa cantare cose diverse dai rossori degli anni verdi. Lo seguirò con attenzione. Lo aspetterò con fiducia. L’esplodere, negli anni successivi, del suo talento di cantore di emozioni senza tempo, di letterato e comunicatore alto e completo, di artista totale, mi troverà pronto a recepirlo.

Nel 1980, a seguito di una tournee in Polonia, Baglioni scrive “Ragazze dell’Est”, magico affresco di una società inquieta e nebbiosa. Alcuni passaggi sono impietosi per i simpatizzanti comunisti. Si parla di “primavera che non venne mai”, di uomini “soli e ubriachi che vomitano sul mondo”, di vita che scorre solo negli alberghi dove sono possibili i contatti con gli occidentali. Solitamente parole del genere verrebbero marcate a casa mia come “propaganda anticomunista”, come “disinformazione”. Ma la fonte da cui provengono è autorevole e credibile. E’ quella di un ragazzo (29enne) che nel brano ripete più volte “io le ho viste!”. Non sembra un prezzolato della Cia. Si è costretti ad ascoltarlo con attenzione e ad inserire la sua voce in una raccolta di testimonianze che sembrano concordare sul fatto che “di là” qualcosa non funzioni così bene come si pensava; che ci sia qualche conto che non torna nella soddisfazione e nella felicità personale dei “sudditi” di quel socialismo realizzato.

In seguito gli “impegnati” si disimpegnano, mentre Baglioni allunga il suo talento su tutti i temi della modernità, pur continuando a darmi una mano, parlando con linguaggi che posso capire (e sommamente ammirare) dei temi a me più ostici delle emozioni, delle intimità, del sangue e della carne.

Diventerà il più bravo. Lo percepirò meritevole del titolo di “vate” che si dette a Carducci. Lo seguirò ovunque con l’affetto che si deve a un fratello e con l’orgogliosa percezione di condividere il mio tempo di vita con uno dei grandi di una storia della nostra lingua e della nostra arte che comincia 700 anni fa con Dante e arriva a lui in poche decine di passaggi.

Oggi le barriere non sono più così nette. “Impegno” può intendersi come una forma progressista di educazione sentimentale, etica, ambientale, civica, sessuale. Si può fare la rivoluzione non solo perseguendo un grande obiettivo di trasformazione del sistema economico. Si possono condurre anche rivoluzioni personali, di coppia, di famiglia, di piccole comunità aziendali, sportive, di volontariato…. E, tante volte, sono proprio le parole dei cantanti più capaci e popolari ad ispirarle.

Nel 1989 i concerti di Bruce Springsteen e di altre rock star, tenuti a Berlino Ovest, e amplificati in modo da poter essere sentiti anche all’Est, saranno carburante per l’incendio della rivoluzione pacifica che abbatterà il Muro e la Cortina di Ferro.

“Una canzone non potrà mai cambiar la vita…” Forse quella volta il “maestro” Claudio si era sbagliato. Forse si può. Strada facendo, di esempi, ne abbiamo visti molti.

 

 

 

 

 

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